Testo integrale con note e bibliografia

Testo della sentenza

Il cammino del diritto del lavoro lungo i binari della giurisprudenza europea e, soprattutto, il cammino degli effetti diretti della Carta in ambito lavoristico, effetti che ancora stentano a decollare, ruota senza dubbio su principi nodali quali l’art. 47, la tutela giurisdizionale effettiva, che sempre più diventa il fondamentale grimaldello nelle mani della Corte di giustizia, nonché sull’art. 21, ovvero il principio di uguaglianza e non discriminazione.
Affermava l’avvocato generale Yves Bot al paragrafo 78 delle sue conclusioni nelle cause riunite Grande Sezione del 6 novembre 2018 Bauer e Willmeroth che il fatto che talune disposizioni di diritto primario si rivolgano, in primis, agli Stati membri non è idoneo a escludere che esse possano applicarsi nei rapporti fra privati, (già la Corte lo aveva chiarito nella sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger Causa C- 414/16).

La Corte, ci dicono i giudici di Lussemburgo nell’altra imponente sentenza del “pacchetto” sul diritto alle ferie del 6 novembre 2018, la Max Planck (Causa C- 684/16), ha già ammesso - proprio in Egenberger - che il divieto sancito all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e, cioè, il divieto di discriminazioni, è di per sé sufficiente a conferire ai soggetti privati un diritto invocabile in quanto tale in una controversia che li vede opposti a un altro soggetto privato, senza, quindi, che vi osti l’articolo 51, paragrafo 1, della Carta.
Ribadisce, assai più di recente, l’Avvocato generale Tanchev nelle proprie conclusioni presentate il 17 marzo scorso nella vicenda dei contratti a termine degli insegnanti di religione italiani (causa C- 282/19, YT e a. c. MIUR) - vicenda oggetto di rinvio pregiudiziale da parte della Corte d’appello di Napoli - che una volta che entrano in gioco gli articoli 21 e 47 della Carta, i giudici degli Stati membri sono “tenuti a fare di più”: quelle norme cruciali non necessitano di precisazione mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale.
Di conseguenza, il giudice del rinvio è tenuto a disapplicare all’occorrenza le disposizioni del diritto nazionale per garantire l’efficacia dei diritti tutelati dagli articoli 21 e 47 della Carta.
Val la pena ricordare in questo contesto la “rivoluzione” Dominguez (CGUE 24 gennaio 2012, causa C-282/10) che ha imposto al giudice nazionale che si trovi di fronte ad una questione di interpretazione del diritto interno in rapporto al diritto dell’Unione, di “invertire l’ordine degli addendi”.
La Corte di giustizia, infatti, capovolgendo l’impostazione precedentemente in auge e dando la stura a tutta l’interpretazione successiva confermata dalla recente sentenza Poplawsky II (CGUE, 24 giugno 2019, causa C-573/17) statuisce che spetta al giudice nazionale tentare un’interpretazione conforme del diritto interno al diritto europeo e soltanto ove la stessa risulti impossibile ricercare la norma eventualmente dotata di effetto diretto da applicare nella specie mettendo da pare il diritto interno.
La questione verteva sulla pretesa di Maribel Dominguez di godere delle ferie retribuite a lei spettanti, relative al periodo di riferimento considerato, pur essendo stata assente per effetto di un infortunio occorsole, possibilità che sembrava negata dalla normativa interna, in apparente contrasto con la Direttiva 2003/88: secondo la Corte, in base all’articolo 7 della direttiva medesima, non dev’essere leso il diritto di alcun lavoratore - indipendentemente dal fatto che si trovi in congedo per malattia durante tale periodo di riferimento per infortunio sopravvenuto sul posto di lavoro o altrove, o per malattia di qualunque natura o origine - alle ferie annuali retribuite di almeno quattro settimane.
Ciò posto, secondo i giudici di Lussemburgo, è compito del giudice del rinvio verificare, prendendo in considerazione il complesso del diritto interno - in particolare, nella specie, l’articolo L. 223 4 del codice del lavoro statale- e applicando i metodi di interpretazione da tale diritto riconosciuti, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva 2003/88 e di giungere ad una soluzione conforme alla finalità da essa perseguita, onde stabilire se si possa pervenire ad un’interpretazione di tale diritto che consenta di equiparare l’assenza del lavoratore per incidente in itinere ad una delle fattispecie menzionate in tale articolo del codice del lavoro.
Soltanto nel caso in cui tale interpretazione non fosse possibile, occorrerà esaminare se l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 abbia effetto diretto e se, in tal caso, la sig.ra Dominguez potesse avvalersene nei confronti dei convenuti nel procedimento principale e in particolare del suo datore di lavoro, in considerazione della loro natura giuridica.
In conclusione, potremmo dire che l'interpretazione delle norme nazionali il più possibile conforme al diritto comunitario è la vera chiave di volta del sistema, il principio che obbliga il giudice a porre una questione pregiudiziale ogni volta che sia impossibile pervenire autonomamente ad una applicazione del diritto interno coerente con il diritto dell’Unione, in attuazione del principio del primato, principio fondamentale dell'ordinamento giudiziario comunitario.
Nella sentenza Poplawski II (CGUe 24 giugno 2019, causa C. 573/17), la Corte ha affermato che, al fine di garantire l'effettività di tutte le disposizioni del diritto dell'Unione, il principio del primato richiede, in particolare, che i giudici nazionali interpretino, per quanto possibile, il loro diritto nazionale conformemente al diritto dell'Unione, conferendo agli individui la possibilità di ottenere un risarcimento se i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto dell'UE dovuta a uno Stato membro.
È sempre in base al principio del primato che, se non può interpretare la normativa nazionale secondo le prescrizioni del diritto dell'Unione, il giudice nazionale competente per l'applicazione delle disposizioni di tale diritto è tenuto a garantirne la piena efficacia, disapplicando, se necessario, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, senza doverne chiedere o attendere la sua preventiva rimozione per via legislativa o altra procedura costituzionale.
La sentenza ha posto una delicata questione circa i rapporti tra effetto diretto e primato ma ha riconfermato che per la disapplicazione occorre l’effetto diretto; ciò che qui interessa, tuttavia, è che l’interpretazione conforme diventa preliminare e pregiudiziale e viene estesa fino alle sue estreme conseguenze potendo condurre, ove necessario fino alla disapplicazione.
Sarà d’altro canto tempo ora, per i giudici di ultima istanza, di domandarsi, dopo le conclusioni dell’Avvocato Generale Bobek del 15 aprile (nella causa oggetto di rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato Consorzio Italian management), se ed in che termini le stesse possano esser fatte proprie dalla Corte di giustizia e condurre ad una rivisitazione della giurisprudenza Cilfit: l’Avvocato generale definisce il rinvio pregiudiziale, le eccezioni ad esso e, soprattutto, il suo enforcement, il can che dorme del diritto dell’Unione europea, quello di cui tutti potrebbero scrivere trattati ma, che nella vita reale, è meglio lasciare indisturbato. E così, secondo Bobek si dovrebbe transitare dall’assenza di ogni ragionevole dubbio in termini soggettivi verso una concezione realmente obiettiva dell’uniforme interpretazione del diritto dell’Unione; in altre parole, il dovere di sottoporre alla Corte un rinvio pregiudiziale non dovrebbe essere focalizzato prioritariamente sulle risposte corrette, quanto sull’individuazione delle giuste domande. Vedremo cosa farà la Corte.
In questo contesto, se a distanza di venti anni dalla sua promulgazione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea rappresenta un punto di arrivo rispetto ai percorsi di tutela dei diritti umani che si sono seguiti in Europa a partire dal secondo dopoguerra e un punto di partenza nel riconoscimento di nuove esigenze di protezione, la Corte la pone costantemente a baluardo di diritti inviolabili anche e, diremmo, prioritariamente, per garantire il nodo centrale di qualsiasi giustizia che possa dirsi tale: l’imparzialità e l’indipendenza del giudice. Queste ultime, come è evidente, rappresentano per la Corte un prius in quanto nessuna giustizia del caso singolo anche nell’ambito del diritto del lavoro può ipotizzarsi in assenza di strenua tutela dei principi fondamentali dello stato di diritto.
Prendendo allora le mosse dalla nota, complessa e a tratti inquietante vicenda polacca, tenterò di delineare, anche se soltanto per brevi cenni, il nuovo ruolo assunto dalla Corte di giustizia non solo nella tutela dei diritti fondamentali stricto sensu ma nella tutela di quei diritti come “a social ordering”, per utilizzare l’espressione di Paul Craig, intervenendo, nel vuoto delle politiche, in misura incisiva, in particolar modo appunto mediante lo straordinario strumento della Carta dei diritti fondamentali, nella tutela dello Stato di diritto negli Stati membri nei quali sussista il concreto pericolo di sovvertimento dei principi basilari della rule of law.
In questo percorso, oltre al rilievo da riconoscersi alle disposizioni della Carta, come vedremo, gioca un ruolo nodale l’obbligo di leale collaborazione che grava sui giudici nazionali ai sensi dell’art. 4 par. 3 TUE più volte richiamato dalla Corte soprattutto nelle pronunzie più recenti. Ma procediamo con ordine.
Il 20 dicembre 2017, la Commissione europea ha adottato, ai sensi dell’articolo 7, paragrafo uno del trattato sull’unione europea, una proposta di decisione del consiglio sulla base di un evidente rischio di violazione grave dello stato di diritto da parte della repubblica di Polonia.
Tale proposta non ha mai raggiunto lo stato decisionale: la prospettiva di raggiungere la maggioranza richiesta per la decisione del Consiglio è apparsa da subito irrealista. Possiamo sin da ora sottolineare che questa è stata vista come una vicenda emblematica del fatto che le procedure di cui all’art. 7, volte a prevenire, accertare e sanzionare una grave violazione di quei valori dell’Unione che non solo sono comuni agli Stati membri ai sensi dell’art. 2 ma si applicano anche al di fuori dell’ambito di attuazione del diritto europeo e, quindi, anche nell’esercizio di competenze esclusive, sono mal congegnate e rischiano di realizzare il paradosso di uno Stato membro dotato di un sistema illiberale ne confronti del quale non vi sono, però, reali strumenti di accertamento e sanzione.
A tale insufficienza si è cercato di rimediare in vario modo soprattutto tenendo presente che la violazione dei valori dell’Unione da parte di uno Stato membro comporta, pressochè inevitabilmente, ulteriori violazioni di altre regole europee.
L’accertamento delle prime, di carattere sistemico, avviene esclusivamente attraverso le procedure stabilite dall’art. 7: di converso, le violazioni specifiche di altri obblighi europei, che pur conseguano alle politiche adottate da uno Stato in violazione dei valori dell’Unione, possono essere accertate e sanzionate attraverso le procedure ordinarie di garanzia previste dai Trattati, in particolare, attraverso la procedura di infrazione di cui all'art. 258 TFUE.
In varie occasioni la Corte di giustizia è stata chiamata ad effettuare un accertamento di questo tipo ed in alcuni casi il nesso fra violazioni sistemiche e violazioni specifiche si è fatto assai esplicito.
E’ quanto è avvenuto con il caso polacco.
Con sentenza in data 24 giugno 2019, (causa C- 619/18) la Corte di giustizia ha accertato la difformità della legislazione polacca, che aveva disposto il pensionamento anticipato dei giudici della Corte Suprema e la loro sostituzione attraverso procedimenti riservati alla discrezionalità di organi politici, rispetto all’obbligo degli Stati membri di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Chiave di volta della pronunzia, quindi, non solo l’obbligo che incombe sugli Stati ai sensi dell’art. 19 TUE, ma, soprattutto, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali che assicura, nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, il diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale; si tratta di una chiara dimostrazione della centralità di quella norma in ordine alla quale hanno da tempo iniziato a circolare spinte applicative anche di tipo orizzontale.
Nella successiva decisione del 19 novembre 2019 (cause riunite C- 585/18, C- 624/18 e C- 625/18) la nota A.K., resa in seguito ad un rinvio pregiudiziale disposto dalla Corte Suprema polacca, la Corte ha interpretato l’art. 47 della Carta in combinato disposto con l’art. 9, par. 1, della Direttiva 2000/78/CE in materia di parità di trattamento nelle condizioni di lavoro nel senso che le due disposizioni garantiscono ai singoli il diritto a un ricorso equo ed imparziale. Secondo la Corte, tale diritto sarebbe violato da una legislazione, quale quella polacca, che riservi la competenza a definire le controversie, in relazione alle norme sul pensionamento anticipato dei giudici, ad una sezione speciale della Corte Suprema, composta da membri nominati da organi politici sulla base di criteri discrezionali. L’esistenza di un controllo politico sulla nomina dei giudici che compongono la sezione speciale potrebbe minare, infatti, l’indipendenza e l’imparzialità di tale organo al punto da “ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare a detti singoli in una società democratica”. La Corte ha indicato espressamente che “le garanzie di indipendenza e di imparzialità del giudice “presuppongono l’esistenza di regole relative, in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo rispetto ad elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti (sulla stessa linea della giurisprudenza Piersack, par. 123).
In seguito, la Corte Suprema polacca remittente, nelle sentenze del 5 dicembre 2019 e del 15 gennaio 2020, ha dichiarato specificamente che, alla luce delle circostanze e modalità con cui è stata costituita, dell'entità dei suoi poteri, della sua composizione e del coinvolgimento del Consiglio Nazionale della Magistratura nella sua costituzione, l'Izba Dyscyplinarna non può essere considerata un tribunale ai fini né del diritto dell'UE né del diritto polacco; si tratta, lo ripeto, di una Camera la cui giurisdizione concerne i casi disciplinari riguardanti i giudici della Corte Suprema e, in appello, quelli relativi ai giudici dei tribunali ordinari.
Dopo tali sentenze, tuttavia, l'Isba Dyscyplinarna ha continuato a svolgere le sue funzioni giudiziarie.
Ritenendo che la Polonia non avesse dato esecuzione alla sentenza, la Commissione ha adito nuovamente la Corte, nell’ambito di un procedimento di infrazione. Con l’ordinanza dell’8 aprile 2020, causa C- 791/19, Commissione europea c. Repubblica di Polonia, la Corte ha ordinato alla Polonia, questa volta in via cautelare, di sospendere l’applicazione della legge controversa e di astenersi dal rimettere le cause pendenti alla Sezione speciale ad altro giudice che non soddisfi i requisiti di indipendenza indicati nella sentenza AK.
In particolare, nell’ordinanza dell’8 aprile 2020, la Grande Sezione della Corte di giustizia ha accolto l’istanza cautelare avanzata dalla Commissione e, ritenendo giustificata l’adozione di misure provvisorie, ha disposto l’immediata sospensione, da parte della Polonia, dei poteri riconosciuti alla Camera disciplinare della Corte suprema in ordine alle cause disciplinari riguardanti i giudici.
Questione centrale sollevata dalla Polonia era quella concernente la dedotta insussistenza della competenza della Corte ad ordinare le misure provvisorie controverse: la Corte ha sottolineato che, sebbene l'organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza degli stessi, nondimeno, nell'esercizio di tale attività, gli Stati membri sono tenuti ad adempiere ai loro obblighi derivanti dal diritto dell'UE.
Riguardo al fumus boni juris la Corte ha ritenuto prima facie non infondati gli argomenti addotti dalla Commissione a sostegno dell’assenza di indipendenza ed imparzialità dei procedimenti disciplinari nei confronti di magistrati, mentre, con riferimento al periculum in mora, lo ha ravvisato nel rischio di pregiudizio grave e irreparabile agli interessi dell'Unione, che possano realizzarsi e produrre i propri effetti prima che sia presa la decisione finale.
Ed arriviamo così all’ultima puntata – almeno per ora – della saga polacca.
Si tratta della decisione adottata dalla Grande Sezione della Corte di giustizia il 2 marzo scorso nella causa C- 824/18, AB.
In primo luogo, la Corte nel suo più autorevole consesso dichiara che sia il sistema di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, stabilito all’articolo 267 TFUE, sia il principio di leale cooperazione, enunciato all’articolo 4, paragrafo 3, TUE, ostano a modifiche legislative simili a quelle, sopra citate, effettuate nel 2018 in Polonia, qualora risulti che esse hanno avuto lo specifico effetto di impedire alla Corte di pronunciarsi su questioni pregiudiziali come quelle sollevate dal giudice del rinvio e di escludere qualsiasi possibilità che un giudice nazionale ripresenti in futuro questioni analoghe. La Corte precisa, a tale riguardo, che spetta al giudice del rinvio valutare, prendendo in considerazione l’insieme degli elementi pertinenti e, in particolare, il contesto in cui il legislatore polacco ha adottato tali modifiche, se ciò avvenga nel caso di specie.
La Corte considera, poi, che anche l’obbligo degli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli il rispetto del loro diritto a una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, previsto all’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, può ostare a questo stesso tipo di modifiche legislative. Così è nel caso in cui risulti – circostanza che, ancora una volta, spetta al giudice del rinvio valutare sulla base dell’insieme degli elementi pertinenti – che tali modifiche sono idonee a suscitare dubbi legittimi nei singoli quanto all’impermeabilità dei giudici nominati, sulla base delle delibere della KRS, il Consiglio nazionale della Magistratura, rispetto a elementi esterni, in particolare rispetto a influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti.
Per giungere a questa conclusione, i giudici di Lussemburgo ricordano che le garanzie di indipendenza e di imparzialità richieste in forza del diritto dell’Unione presuppongono l’esistenza di norme che disciplinino la nomina dei giudici. Peraltro, la Corte sottolinea il ruolo determinante della KRS nel processo di nomina a un posto di giudice della Corte suprema, in quanto l’atto di proposta da essa adottato costituisce una condicio sine qua non per la successiva nomina di un candidato.
Pertanto, il grado di indipendenza di cui gode la KRS rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo polacco può assumere rilevanza, secondo la Corte, al fine di valutare se i giudici da essa selezionati saranno in grado di soddisfare i requisiti di indipendenza e di imparzialità.
A tale riguardo, la Corte precisa che se il giudice del rinvio, sulla base dell’insieme degli elementi pertinenti da esso menzionati nella sua decisione di rinvio e, in particolare, delle modifiche legislative che hanno recentemente inciso sul processo di designazione dei membri della KRS, tutti di nomina parlamentare, dovesse concludere che quest’ultima non offre sufficienti garanzie di indipendenza, l’esistenza di un ricorso giurisdizionale a disposizione dei candidati non selezionati risulterebbe necessaria per contribuire a preservare il processo di nomina dei giudici interessati da influenze dirette o indirette ed evitare, in definitiva, che possano sorgere i dubbi summenzionati.
Infine, la Corte dichiara che, se il giudice del rinvio dovesse giungere alla conclusione che l’adozione delle modifiche legislative del 2018 è avvenuta in violazione del diritto dell’Unione, il principio del primato di tale diritto imporrebbe a quest’ultimo giudice di disapplicare tali modifiche, siano esse di origine legislativa o costituzionale, e di continuare ad esercitare la competenza, di cui era titolare, a pronunciarsi sulle controversie di cui era investito prima dell’intervento di dette modifiche.
Orbene in questo contesto si inserisce la Grande sezione del 20 aprile scorso sulla vicenda di nomina dei giudici maltesi in cui la Corte ha escluso le violazioni prospettate.
Centrale il link fra art. 2 e art. 19 ancora più rimarcato rispetto al caso dei giudici portoghesi: dall’articolo 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, che sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata, in particolare, dalla giustizia. Evidenza la Corte, al riguardo, che la fiducia reciproca tra gli Stati membri e, segnatamente, i loro giudici, si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, come precisato nel suddetto articolo. Ne consegue che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. Uno Stato membro non può quindi modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto, valore che si concretizza, in particolare, nell’articolo 19 TUE [chiaro il richiamo alla sentenza del 2 marzo 2021, A.B. e a). Quindi sull’onda lunga dell’art. 19 l’art. 2 prende corpo ed impedisce agli Stati di adottare qualsiasi misura che violi la clausola di non regresso rispetto ai valori fondanti dell’Unione.
Orbene conclusivamente due sono gli aspetti che in questo rapido excursus sul cuore della indipendenza ed imparzialità come nucleo della funzione giurisdizionale, maggiormente preme qui evidenziare, soltanto con poche, rapide, battute:
Il primo, il ruolo centrale del giudice che, anche nella vicenda polacca, si trova a dover conciliare l’inconciliabile per usare l’icastica espressione dell’Avvocato Pojares Maduro nella causa Arcelor Atlantique et Lorraine: sull’onda del fondamentale principio del primato, due sono, senza dubbio, in base ad un sommario studio statistico, le più ricorrenti affermazioni contenute nelle sentenze della Corte di giustizia: la prima, “spetta al giudice nazionale”; la seconda “nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali sono chiamati a interpretarlo per quanto più possibile, alla luce della lettera e dello scopo del diritto dell’Unione” - : due richiami costanti all’impegno del giudice nazionale.
L’obbligo di leale collaborazione di cui all’art. 4 n. 3 del Trattato, spinto alle estreme conseguenze e, nel caso che qui interessa, fino ad imporre al giudice del rinvio di disapplicare la norma interna successiva contrastante determinando una riespansione della normativa previgente – con un meccanismo similare alla nota vicenda Mangold - sottolinea la centralità del rinvio al giudice nazionale ed al suo gravoso impegno interpretativo quale chiave di volta del sistema ordinamentale integrato; in una parola : nella essenziale sinergia fra le Corti, il giudice nazionale si conferma quale organo di base dello spazio giudiziario europeo.
Il secondo profilo che interessa porre in risalto è come la giurisprudenza della Corte sul caso polacco, ormai ampia, evidenzi come la Corte di giustizia, stimolata dalla Commissione, nonché dai giudici della corte Suprema di Polonia, sia ormai “sulla linea del fronte” nella battaglia per la garanzia del rispetto dei valori fondamentali dell’Unione. Emerge da tale giurisprudenza come il controllo sui valori fondamentali si stia trasformando in una sorta di controllo esterno rispetto agli ordinamenti nazionali e alla loro pretesa sovranità assoluta. Tale controllo assume, dunque, un pronunciato rilievo costituzionale e limita l’obbligo dell’Unione di rispettare l’identità politica e costituzionale degli Stati membri, formulato dall’art. 4 par. 2 TUE.
Nel caso AK, l’elemento che ha consentito alla Corte di operare è stato l’art. 19, par. 1, comma 2, TUE, il quale incardina i giudici nazionali nell’ambito della funzione giudiziaria europea. Posto che i giudici nazionali hanno il dovere di interpretare ed applicare il diritto europeo, una disciplina nazionale che ne mini l’indipendenza, pregiudicherà, altresì, l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. Tale ancoraggio trova, poi, il proprio naturale sviluppo, nell’art, 47 della Carta che sembra diventato ormai il core business delle più recenti decisioni della Corte di giustizia: credetemi da ora in poi ci si dovrà sempre più concentrare sullo studio di questa disposizione per così dire trasversale, quasi un metaprincipio del diritto dell’Unione al pari dell’uguaglianza e della non discriminazione perché è su di essa nelle sue miriadi di sfaccettature che si sta costruendo il futuro del sistema giurisdizionale integrato.
Infine, attraverso il ponte dell’art. 19 la Corte nella vicenda maltese enfatizza il proprio ruolo centrale decidendo essa stessa per la illegittimità di qualsiasi violazione della clausola di non regresso nella tutela dei principi della rule of law europea, tutela di cui essa Corte sa di essere prima e fondamentale depositaria.
La domanda che appare indispensabile porsi all’esito di questa breve disamina è se, ed in qual modo, disposizioni che comunque si risolvano in una garanzia in ambito lavoristico (viene immediato alla mente il riferimento proprio alla tutela giurisdizionale effettiva od al divieto di discriminazioni), al pari di quanto avvenuto per l’art. 19 possano operare in modo da consentire una tutela per cosi dire mediata dei valori espressi dall’art. 2 TUE.
Anche nella vicenda polacca iniziano ad intersecarsi pronunzie importanti della Corte di Strasburgo a quelle già richiamate della Corte di giustizia ed evidenziano la sostanziale osmosi che è andata delineandosi in tema di massima espansione delle tutele a livello sovranazionale.
Si pone su questa linea la recentissima decisione del 22 luglio scorso nel caso Reczkowicz c.Polonia (n.43447/19).
Si tratta di una importante sentenza nei confronti della Polonia che dal sussistere di influenze indebite dei poteri legislativo ed esecutivo sulla nomina dei magistrati fa discendere la conseguenza che gli organi giudiziari oggetto delle influenze non sono in linea con l’art. 6 CEDU; la Corte afferma infatti che la nuova sezione disciplinare della Corte Suprema polacca non è un "tribunale costituito per legge" ai sensi della Convenzione: la procedura di nomina dei suoi componenti, affidata ad un Consiglio di Giustizia che, dopo la riforma del 2017 non dà più garanzie di indipendenza dal potere esecutivo e legislativo, compromette strutturalmente la legittimità dell'organo che ha esaminato il caso.
Può essere interessante ricordare un risalente ma emblematico esempio della sinergia tra le due Corti: la sentenza di Strasburgo Goodwin vs. United Kingdom (11 luglio 2002, n. ric. 28957/95) sulla identità di genere nella quale, significativamente, per la prima volta, la normativa del Regno Unito relativa allo stato civile viene utilizzata come spartiacque fra la giurisprudenza antecedente e successiva della Corte di Giustizia.
Ed in effetti già in P v. S e Cornwall County Council (sentenza della Corte del 30 aprile 1996, Causa C-13/94) i giudici di Lussemburgo, in sintonia con le conclusioni dell’Avvocato Generale, nell’escludere la legittimità del licenziamento di un transessuale, sottolineavano di aver già più volte affermato che il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana, di cui la Corte deve garantire l' osservanza (v., in tal senso, sentenza 15 giugno 1978, causa 149/77, Defrenne, e sentenza 20 marzo 1984, cause riunite 75/82 e 117/82, Razzouk e Beydoun/Commissione).
Quella pronunzia aprirà un nuovo capitolo in tema di non discriminazione che estenderà i propri effetti, come detto, anche a Strasburgo: ho voluto ricordarla perché l’Avvocato Generale era il Prof. Tesauro che ricorderemo sempre come un faro nella tutela dei diritti e dei valori che fanno capo ai cittadini e lavoratori dell’Unione.

 

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