Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Afghanistan: la responsabilità e l’impegno vengono prima della solidarietà

di Fabrizio Filice
comitato esecutivo di Magistratura democratica

La questione dell’Afghanistan evidenzia in modo particolarmente chiaro, nel contesto geopolitico, le ambiguità e gli opportunismi tattici che legano i Paesi occidentali alla narrazione dei diritti umani; ambiguità alle cui radici vi è un nodo politico e culturale da sciogliere, che affonda nella storia coloniale e anche nella questione di genere, non ancora realmente assimilata né elaborata dai nostri ordinamenti giuridici nonostante i proclami mediatici, sempre più diffusi in materia. Il flusso migratorio già in atto dall’Afghanistan, che non sarà certamente paragonabile in termini quantitativi a quello degli ultimi anni, potrebbe indurre i Paesi occidentali a nuove “torsioni” del discorso sui diritti e a mettere di nuovo in primo piano interessi politici, economici e strategici. Per la parte che avrà nella vicenda afghana la giurisdizione, in particolare della protezione internazionale, sarà quindi chiamata a una sfida d’indipendenza da qualsiasi valutazione “altra” dal riconoscimento effettivo del diritto di asilo; così come dovrà dimostrare una capacità, maggiore rispetto a quella dei governi europei, di analisi e di implementazione della questione di genere. 

L’opportunismo occidentale sui diritti

La narrazione mediatica che nel 2001 ha rivestito agli occhi dell’opinione pubblica Enduring freedom, l’operazione bellica guidata da USA e NATO di invasione e occupazione dell’Afghanistan, ha issato sull’equivoca bandiera della guerra al terrorismo e della legittima difesa preventiva anche la rivendicazione dei diritti delle donne afghane, certamente calpestati e violati in modo intollerabile a partire dal 1996, con la nascita dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

Una rivendicazione di civiltà che avrebbe dovuto tacitare, o quantomeno affievolire, la resistenza della società occidentale di fronte a un intervento armato di violenza efferata e perseguita con sistematicità anche contro gli individui catturati nel corso delle operazioni, come lo scandalo di Abu Ghraib avrebbe traumaticamente svelato qualche anno più tardi, a seguito dell’estensione del conflitto in Iraq.

Oggi, di fronte all’abbandono dell’Afghanistan, rivelativo della reale indifferenza politica alla sorte della popolazione civile le cui ragioni erano state invece portate a giustificazione dell’invasione vent’anni fa, l’interrogativo davvero imperante e ineludibile, che come giuristi e giuriste dobbiamo porci, non ha tanto a che fare con il perché del ritiro, unilaterale e non negoziabile dell’America; ma sul come quella narrazione mediatica, la cui pretestuosità era evidente nel 2001 esattamente come lo è oggi, abbia potuto reggere – perché tutto sommato ha retto - nella coscienza media, benpensante e liberale della civiltà occidentale.

Sul perché del ritiro americano scorrono fiumi di spiegazioni della geopolitica che tiene a definirsi “non schierata”: in primis la perdita di importanza tattica del Paese, non più decisivo per la competizione con la Cina, la quale anzi viene indotta a impegnarsi direttamente sul territorio a ragione della sua adiacenza al Pakistan, e quindi della possibile incidenza sulla qualità del corridoio della Nuova via della seta. C’è poi chi sottolinea il patrimonio minerario del sottosuolo afghano, ricco di giacimenti di litio (il motore della tecnologia e quindi il nuovo oro nero) che gli americani non sono riusciti a sfruttare. Il prossimo G20 straordinario sull’Afghanistan, che si terrà con il coinvolgimento della Russia e della Cina, ma anche di Arabia Saudita, Turchia e India, potrebbe chiarire meglio i futuri scenari.

Sta di fatto che da alleati (armati e finanziati) della guerra al comunismo sovietico, i jihadisti sono agevolmente passati a nemici della democrazia stessa e poi sono stati semplicemente derubricati a interlocutori “indifferenti” sul piano democratico nel momento in cui si è deciso, negli ultimi diciotto mesi, di riconsegnare loro il Paese con tutte le conseguenze in termini di regressione democratica per la popolazione civile.

La più ovvia delle constatazioni dietro l’eccesso, per alcuni appassionante, di visione strategica è che la drammatica violenza inflitta alla popolazione civile e in particolare alle donne, già nel corso dell’occupazione e a maggior ragione nell’attuale fase di ripresa del potere dei talebani, non sembra costituire un fattore politicamente determinante.

«Quello che mi rende molto triste è il fatto che l’Afghanistan e il popolo afghano siano diventati per il mondo unicamente hashtag su Twitter. L’Europa e la Nazioni Unite come il resto del mondo guardano passivamente. Cosa pensano che possa accadere in Afghanistan? Vorrei dire a tutto il mondo “vergognatevi” per ciò che avete fatto a noi e all’Afghanistan. Ci prendete in giro e ci usate. Non contiamo più su di voi, non ci fidiamo più di voi. Non vorrei nemmeno parlare con voi perché il tempo per parlare è finito[1]». 

Eccole, le parole per dirlo. Le parole che smascherano una solidarietà di plastica dietro la quale non c’è l’intenzione di assumersi una responsabilità. Dietro la quale, soprattutto, non c’è alcuna consapevolezza politico-culturale del contenuto prescrittivo, sostanziale e “forte” dell’eguaglianza e dei diritti. Ed è forse proprio questa “assenza diffusa” di educazione civile e giuridica che desertifica l’occidente, la sola che in fondo può spiegare come la narrazione della “esportazione della democrazia” sia stata accettata.

Un’ulteriore e concorrente spiegazione affonda nelle radici storico-filosofiche dell’illuminismo e del giuspositivismo. La lettura strategica dei diritti, che agevolmente declina nella loro funzionalizzazione agli interessi politici ed economici degli Stati, è infatti una caratteristica fondativa dell’etnologia giuridica occidentale. Il discorso dei diritti umani non nasce, come vorrebbe una certa retorica panilluministica, “nella luce” dei lumi bensì in un gigantesco cono d’ombra che può definirsi come l’originario lato oscuro dei diritti.

Nell’opinione comunemente accettata l’illuminismo giuridico sei-settecentesco, in cui confluiscono il paradigma illuminista e in parte anche quello giusnaturalista, è rappresentato come la culla dei diritti universali senza considerare adeguatamente che in quel contesto, nel pieno dell’epoca coloniale, i diritti umani si impongono innanzitutto «per il nuovo ruolo strategico da essi svolto nella rappresentazione dell’ordine»[2]. Nel senso che se viene da un lato teorizzata l’eguaglianza originaria di tutti gli uomini in un ipotetico stato di natura, dall’altro lato si attribuisce estrema importanza al modo in cui i popoli hanno diversamente sviluppato le attitudini derivanti da questa comune umanità. E anzi, proprio la ratio differentiae tra popoli evoluti e popoli involuti viene assunta a fattore politico e utilizzata per legittimare il dominio coloniale dei popoli europei sulla base di una logica di esportazione della civiltà che ha dunque radici molto antiche.

Dal raffronto fra la condizione dei nativi americani con quella dei coloni europei, ad esempio, John Locke traeva la convinzione che i primi avessero pochissimo o per nulla sviluppato l’attitudine umana trasformatrice, la praxis di cui in nuce erano dotati in quanto uomini; e che, di riflesso, pochissimo si fossero emancipati da quello “stato di natura” ipotizzato dalla tradizione giusnaturalistica. La conseguenza in termini di ordine sociale non poteva quindi che ammettere e giustificare l’assunzione di supremazia coloniale degli europei in quanto lo sviluppo umano era stato in essi così superiore da legittimare, appunto, una esportazione forzata del loro modello sociale, produttivo ed economico.

Per un buon approfondimento sul punto si rimanda all’importante lavoro di Meccarelli, Palchetti e Sotis (v. nota 2) mentre qui interessa solo focalizzare la direttrice originaria della teoria dei diritti umani, funzionale a sorreggere, più che a scardinare, un ordine sociale potenzialmente fondato anche sulla logica della forza e dell’oppressione.

Quanto di questa direttrice originaria si ritrovi nell’odierno discorso dei diritti umani, inaugurato nel dopoguerra con la Dichiarazione universale del 1948 e poi straordinariamente implementato nei successivi settant’anni sino a delineare l’attuale sistema delle fonti sovranazionali multilivello, è questione oggetto di studi complessi e di un acceso dibattito; ma è certo che se il sistema dei diritti umani della seconda metà del XX Secolo rappresenta un fenomeno in larga parte inedito e strutturalmente autonomo, nondimeno esso si pone anche su una linea di continuità filosofico-culturale con la tradizione illuminista e non può quindi che assorbirne, in una certa misura, anche il retaggio etnocentrico soprattutto in materia di razza, proprietà e genere.

E questo è particolarmente evidente nel caso afghano: sia con riguardo alla visione intrinsecamente etnocentrica dell’esportazione della democrazia al momento dell’occupazione, sia con riguardo all’attuale fase del disimpegno, che sempre più smaccatamente assume, nelle parole dei leader europei, i caratteri di un consapevole e deliberato abbandono della popolazione civile al proprio destino.

 

Donne, eguaglianza, guerra

Donne, eguaglianza, guerra è il titolo di un breve ma molto incisivo contributo che la costituzionalista Letizia Gianformaggio, prematuramente scomparsa nel 2004, scrisse all’indomani dell’occupazione dell’Afghanistan[3].

Tra le prime e più illuminanti studiose italiane della prospettiva di genere applicata al diritto, e quindi della lettura giusfemminista, Gianformaggio vuole centrare una visione giuridica alternativa dell’universalità dei diritti, finalmente immune alla strumentalizzazione politica e funzionale solo alla promozione universale della dignità umana; e ci riesce smascherando un principio di eguaglianza debole – quello, appunto, che si rinviene nella teoria giuspositivista – e contrapponendovi una eguaglianza forte come principio reggente un sistema di diritti universali ontologicamente contro l’uso dell’oppressione.

Riprendendo un suo celebre esempio, si può notare che «il termine più appropriato per indicare il tipo di struttura discorsiva e il tipo di operazioni richiamate dal termine eguaglianza è il termine ordine»[4].

Fare ordine in casa significa chiedere a ogni membro della famiglia di mettere tutte le proprie cose nella sua stanza e fare ordine in ogni stanza significa separare per eguali: mettere i vestiti con i vestiti nell’armadio, le riviste con le riviste sugli scaffali. Ma fare ordine in una immensa biblioteca non può avere lo stesso significato perché lì ci sono solo libri e quindi solo uguali già messi insieme nello stesso spazio. Fare ordine, in questo caso, significa non più “separare per uguali” ma “separare uguali” e quindi decidere come, in base a quali criteri, assegnare posizioni, dividere o accorpare. Non esiste un’eguaglianza ab origine neutra e imparziale perché ciò che troviamo all’inizio di ogni sistema giuridico coerente che dichiari di fondarsi sull’eguaglianza è in realtà la codificazione dei criteri e dei parametri, stabiliti politicamente e quindi in base a rapporti di forza, in base ai quali l’eguaglianza sarà applicata e distribuita dal “sistema”.

Identificare l’eguaglianza con il “sistema” in sé, e quindi con i meccanismi che l’ordinamento giuridico si dà per garantire in modo coerente l’ordine che è stato politicamente stabilito – fra tutti il principio di legalità e i criteri di soluzione delle antinomie – significa adottare, dell’eguaglianza, una nozione per l’appunto debole, perché indifferente agli equilibri e soprattutto agli squilibri di potere che l’ordine fondativo ha inteso cristallizzare; e questo ha a che fare con l’idea, anch’essa di derivazione illuminista, della separazione dei poteri in senso rigido, per cui il Giudice deve limitarsi ad applicare la legge tel quel senza interferire con la volontà del legislatore.

Ma c’è un’altra eguaglianza, di impostazione antigiuspositivistica, che rifiuta l’idea di onnipotenza del legislatore e la correlata “finzione” della sua volontà presunta quale criterio di interpretazione e di integrazione analogica del sistema de jure condito. Una eguaglianza “forte” che intende invece affermare non solo un criterio giuridico di controllo formale delle scelte legislative attraverso il vincolo del rispetto di norme superiori (grossomodo coincidenti con le norme costituzionali e, oggi, anche con il sistema delle fonti e delle Corti sovranazionali), ma anche un vincolo di contenuto delle norme superiori stesse e del disegno politico che le democrazie intendono attuare con i processi di normazione.

Questa eguaglianza “forte” chiede di riconoscere a tutte e a tutti i diritti fondamentali e di promuovere la dignità umana, il rispetto delle differenze e delle specificità individuali e di gruppo, la protezione incondizionata dalla violenza e dalla discriminazione e la tutela delle minoranze. E non si esaurisce nei perimetri interni al “sistema” posti in rapporto di coerenza formale tra loro ma riconosce un limite “esterno” al sistema giuridico stesso e alla gerarchia delle fonti, andando a delineare quasi una visione “antisistema” dell’ordinamento giuridico.

Una prospettiva che guarda non tanto alla volontà presunta del legislatore quanto alla Costituzione vivente, e quindi alla massima estensione dei diritti, come al criterio guida per progredire e modificarsi ( nella giurisprudenza della Corte suprema americana si parla al riguardo di non interpretivist theory, di cui è stata sostenitrice la grande Giudice Ruth Bader Ginsburg; di contro alla teoria dell’original intent, che invece fonda proprio sulla ricognizione della volontà legislativa originaria nell’applicazione dei precetti costituzionali).

Violazioni dell’eguaglianza in questo senso forte, che diventano quindi anche violazioni del diritto, sono l’assimilazione, consistente nell’assunzione a paradigma di uguaglianza di tratti propri solo di alcuni membri, cioè dei membri dominanti, della comunità giuridica; la discriminazione, consistente in una differenza di trattamento giustificata dalla svalutazione di tratti che le individue e gli individui discriminati ritengono costitutivi della propria identità, uti singuli o come membri di un gruppo o di una comunità; l’“appropriazione culturale”, consistente nell’utilizzazione di elementi di una cultura di minoranza da parte della cultura dominante a fini di sfruttamento economico, di spoliazione o di mantenimento dello stato di oppressione.

Il diritto che ne deriva è di necessità un’agenzia giuridica frammentaria, nel senso di a-sistemica; è un diritto prodotto e applicato localmente in quanto non origina, o almeno non solo, dall’alto del sistema giuridico formale per fare astrazione delle esistenze e delle esperienze individuali (inquadrandole, con molte forzature, in “fattispecie”); bensì prende vita dalle esistenze e dalle esperienze individuali per fare di esse “concretazione” di un’azione giuridica antisubordinazione, antidiscriminazione e antiviolenza.

E’ in questo modo che Gianformaggio guardava ai diritti delle donne afghane già all’inizio dell’occupazione, senza nulla concedere alla narrazione dominante ed etnocentrica dei “diritti di esportazione”, quando scriveva «è la guerra in sé e per sé a significare la violazione dell’eguaglianza, perché designa un procedimento di polarizzazione: noi e gli altri, ovverossia il bene e il male; e gli altri, che sono il male, è legittimo escluderli, avvilirli ed ucciderli: vanno quindi negati nel loro valore di persone (…). Il pensiero delle donne, che tanto ha lavorato su identità, differenza, eguaglianza, arricchito dal pensiero giuridico che sa maneggiare gli strumenti per la tutela e la valorizzazione dei contenuti di queste, secondo noi può dare un contributo rilevantissimo a tale riflessione. A condizione che non rinunci a una pregiudiziale: il bando, il ripudio incondizionato della guerra che è la negazione in re ipsa dell’eguaglianza e delle differenze. Senza questo ripudio, a tali valori verrà tributato solo un omaggio verbale, retorico»[5].

 

Una maggiore attenzione ai femminismi islamici

Una prima conseguenza dell’“eguaglianza forte” consiste nell’evitare di porci ancora una volta nei confronti della popolazione afghana e delle donne in particolare con un atteggiamento di superiorità giuridico-culturale che riposi sull’avanzamento occidentale dei diritti e della parità di genere e sulla complessità e varietà culturale dei femminismi occidentali.

Il che ci impone di focalizzare maggiormente il campo degli studi di genere nel mondo arabo e in particolare nei Paesi M.E.N.A., vale a dire del Medio Oriente e del Nord Africa.

Con il termine femminismo islamico si usa designare un fenomeno piuttosto variegato che, soprattutto a partire dagli anni ottanta del novecento, si unisce al più vasto contesto dei movimenti per i diritti delle donne attivi nel mondo islamico.

Mentre i femminismi occidentali vengono usualmente divisi per “ondate” in senso diacronico, risulta più adeguata ai femminismi islamici una divisione “per filoni” in senso sincronico, e in particolare in tre filoni contestuali e in larga parte (specie i primi due) tra loro interconnessi.

Un primo filone è di tipo teologico e consiste in una lettura dei testi dell’Islam - il Corano principalmente, ma anche la Sunna - secondo una prospettiva di genere e anti-patriarcale. I temi oggetto di trattazione spaziano ovviamente in tutti i campi della partecipazione delle donne alla vita pubblica ma guardano anche alla sua condizione familiare e, soprattutto nelle comunità islamiche europee, anche alla questione dei matrimoni interreligiosi[6].

L’interesse per la religione di una parte rilevante del movimento femminista islamico non deve essere aprioristicamente rifiutata come un punto di frattura con la tradizione femminista occidentale la quale in verità affonda, anch’essa, importanti basi culturali nel movimento mistico femminile del XIII Secolo[7], che fu lo scenario di uno scontro tra la ricerca mistica delle donne e la teologia scolastica e al contempo di uno scontro politico – represso nel sangue e nei primi roghi delle streghe - tra autorità religiosa carismatica e autorità religiosa gerarchica.

Accanto al femminismo teologico – ma non necessariamente su un piano di rigida distinzione con esso – c’è il filone del femminismo laico consistente in un attivismo sul campo per i diritti delle donne[8]. Celebre è il caso di Shirin Ebadi[9] ma sono moltissime le storie di donne attiviste, giuriste, avvocate e magistrate, giornaliste e intellettuali, imprenditrici e operatrici sociali, che hanno fatto dell’impegno per i diritti la cifra non solo della propria professione ma anche della loro esistenza.

Il caso afghano è poi paradigmatico in questo senso in quanto la Costituzione varata nel 2004 (e quindi nel contesto dell’occupazione) in uno con il ripristino del codice civile del 1976 e del codice della famiglia del 1971, ha fornito negli ultimi quindici anni un appiglio normativo importante all’attivismo politico per la condizione femminile.

La nuova Costituzione infatti, pure nel contesto di una fortissima impronta teocratica e nel solco della tradizione della Sharia, riconosce gli uomini e le donne come titolari degli stessi diritti e doveri davanti alla legge e prevede l’elezione di almeno una donna per ogni Provincia all’Assemblea del Popolo.

Il contesto sociale durante l’occupazione è stato in ogni caso di estrema difficoltà per le donne, soprattutto nelle zone rurali dove i talebani o i capi villaggio godono di un’autorità di fatto superiore alla legge nazionale; ma anche a livello generale, nel Paese, in quanto il tasso di violenza domestica e di genere è molto elevato (come lo è del resto anche nei Paesi occidentali) e la pressione talebana non ha mai allentato la morsa: moltissimi sono stati infatti i crimini e gli atti terroristici simbolicamente compiuti contro le donne, tra i quali si ricorda il femminicidio di due magistrate della Corte suprema afghana avvenuto nello scorso mese di gennaio.

In questo difficile contesto il ruolo delle attiviste per i diritti delle donne è stato quindi fondamentale per cercare di trasformare quel minimo nucleo formale di avanzamento giuridico, costituito dalla riforma del 2004, in concrete opportunità di miglioramento della condizione delle donne afghane, nella famiglia e nella società, attraverso una coraggiosa e costante opera di sensibilizzazione e di advocacy. Lo dimostra il caso di Latifa Sharifi, avvocata specializzata e impegnata nella difesa dei diritti delle donne vittime di violenza domestica e nelle procedure di divorzio. Sharifi è stata respinta all’aeroporto di Kabul ove si era recata con la sua famiglia lo scorso 15 agosto per lasciare il Paese ed è attualmente al centro di una campagna di sostegno dell’OIAD (Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo)[10].

Vi è infine un terzo filone, la cui connotazione “femminista” non è tuttavia unanimemente accettata; esso comprende movimenti e partiti apertamente islamisti nei quali però il problema della condizione delle donne e della rappresentanza di genere è maggiormente avvertito e discusso, sino a porre anche delle distinzioni rispetto alla Sharia. 

In quest’ultima prospettiva risultano particolarmente intrecciati al femminismo i temi propri dell’islamismo tradizionale, come panarabismo e anticolonialismo; sì che emancipazione femminile e liberazione nazionale diventano imprescindibili l’uno dall’altro e reciprocamente funzionali.[11]

Un’ulteriore importante distinzione riguarda le fonti sovranazionali evocabili in difesa dei diritti delle donne afghane e, più in generale, nel mondo arabo e nei Paesi M.E.N.A.

Le fonti attualmente più note e citate nella nostra pratica discorsivo-giuridica in materia sono la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul del 2011, e la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, meglio nota come Direttiva vittime.

Ma è chiaro che si tratta di fonti per così dire “eurounitarie”, come tali applicabili soltanto per le donne già presenti nei Paesi del Consiglio d’Europa e dell’Unione oppure per le donne richiedenti asilo nel momento in cui vi fanno ingresso. Il che, se da un lato non è di poco conto soprattutto per l’importanza che l’applicazione di queste fonti può e deve rivestire anche nella giurisdizione della protezione internazionale, dall’altro altro implica che in difesa delle donne che invece sono e resteranno sul suolo afghano, la comunità internazionale potrebbe astrattamente fare leva solo sul sistema primario delle Nazioni Unite, costituito dalla Dichiarazione universale – senza dimenticare che la scarsa rappresentanza del mondo arabo e musulmano nella Dichiarazione costituì da subito un argomento di discussione – e dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna ( CEDAW) del 1979: firmata dall’Afghanistan nel 1980 e ratificata nel 2003 (nello stesso contesto politico della riforma costituzionale del 2004). 

Il punto è che nel contesto attuale la reale precettività della CEDAW – già molto incerta nei Paesi con una forte impronta teocratica, molti dei quali hanno espresso riserve all’applicazione[12] - rischia di essere pressoché nulla. 

Non sembra invece di alcun aiuto, sul piano astratto delle fonti, il ricorso alla Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994, che ammette il ricorso alla Sharia ed è stata per questo dichiarata, nel 2008, incompatibile con la Dichiarazione universale dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, proprio sul versante dei diritti delle donne e dei minori. 

Ancora un aspetto importante del rischio di regressione democratica che il Paese sta vivendo è l’esclusione delle donne dalla giudicatura delle Corti afghane: eventualità già tristemente annunciata dal femminicidio politico delle due alte magistrate lo scorso gennaio, in un contesto mondiale in cui l’equilibrio di genere nella giudicatura internazionale è in sé ancora molto lontano[13].

 

Salvare subito le persone LGBTQ +

Una situazione di rischio estremo per la vita è quella delle persone LGBTQ +.

Nonostante la già citata riforma del 2004 abbia formalmente escluso l’omosessualità e il “travestitismo” (fattispecie in cui rientrano tutte le espressioni di identità di genere non cisgender) dai reati puniti con la pena di morte, la pena capitale è comunque rimasta di fatto sempre in vigore in ampie zone rurali del Paese e in tutte le zone sotto il controllo dei talebani.

Riecheggiano ancora le recenti e terrificanti dichiarazioni rilasciate dal Giudice talebano Gul Rahim che all’inizio di quest’anno, nell’intervista a un quotidiano tedesco, sosteneva che quando fossero tornati al potere, i talebani avrebbero perseguito e giustiziato le persone omossessuali tramite lapidazione o seppellimento sotto il crollo di un muro, secondo la rigida applicazione della Sharia.

Con la ripresa del potere del regime talebano è quindi davvero realistico il rischio di uno sterminio programmato delle persone omosessuali, bisessuali, transgender e queer e, con esso, si impone l’urgenza indifferibile dell’istituzione di un corridoio umanitario che consenta loro di lasciare il Paese.

L’odio verso la comunità LGBT ha, nei Paesi arabi esattamente come in quelli occidentali ( non escluso il nostro, anzi: come la recente vicenda del progetto di legge Zan ha ampiamente dimostrato), origine nella cultura patriarcale e si inserisce pienamente nel tema del genere; anche se l’omolesbobitransfobia si colloca su un piano diverso dalla violenza maschile contro le donne, cioè dalla violenza di genere in senso stretto, la quale rappresenta un attacco alla differenza sessuale delle donne e non può essere quindi intesa come un attacco a una categoria o a un gruppo, essendo le donne la metà della specie umana.

Proprio per le donne omosessuali, bisessuali, transgender e queer i due fattori discriminatori, il sesso e il genere, possono peraltro sovrapporsi e operare sinergicamente - o, come è più corretto dire, in modo intersezionale – per generare effetti discriminatori e violenti ancora più pesanti.

L’assenza di una rete dei diritti strutturata sul territorio, dove del resto non potrebbe operare in condizioni di trasparenza, rende ancora più drammatica la situazione della comunità LGBT che non deve assolutamente essere messa in secondo piano rispetto ad altre in quanto proprio lo sterminio annunciato, e di fatto già in atto, delle persone omosessuali e transgender la colloca, nel contesto attuale, al grado più alto della scala di vulnerabilità - intesa come attuale e concreto rischio di deportazione, tortura, violenza fisica e sessuale e uccisione -,  insieme alla situazione delle donne che ricoprono ruoli istituzionali e di tutte le attiviste femministe, per la parità di genere e in generale per i diritti delle donne.

 

Giurisdizione e sovranità 

Preoccupa molto, di fronte a questa situazione, il muro alzato da alcuni Paesi dell’Unione (Slovenia, Austria, Polonia e Ungheria) e la freddezza dimostrata da altri (Germania) sull’ipotesi dell’istituzione di corridoi umanitari per l’Europa e della distribuzione dei rifugiati afghani “per quote” tra i Paesi dell’Unione.

D’altra parte resta l’auspicio che altri Paesi, tra cui l’Italia, possano effettuare su base volontaria una scelta diversa, ad esempio varando in tempi stretti una lex specialis di ampliamento della protezione sussidiaria e del ricongiungimento familiare per la popolazione afghana e in particolare per le persone ad alto e altissimo tasso di vulnerabilità nell’immediato, in primis le donne, soprattutto se politicamente esposte, e le persone LGBTQ+.

In ogni caso la giurisdizione deve essere pronta a fare la sua parte attraverso la principale finestra di controllo e di azione aperta sul caso afghano, che è ovviamente quella della protezione internazionale.

L’impegno che deve riguardare tutte le attrici e gli attori della giurisdizione, docenti, avvocate e avvocati, magistrate e magistrati, attiviste e attivisti ed esponenti della società civile, è quello di promuovere un’attuazione della giurisdizione della protezione davvero indipendente, e di trasformare in vita attiva l’interoperabilità delle fonti dei e sui diritti integrando, nella loro implementazione, le informazioni e l’impegno sul campo delle Organizzazioni Non Governative che operano sul e per il territorio afghano.

L’articolo 10, terzo comma, della nostra Costituzione prevede che il diritto di asilo sia attribuito senza condizioni ed eccezioni, né vincolo di reciprocità, allo «straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

Riprendendo le parole di Gaetano Silvestri, Presidente emerito della Corte costituzionale, «viene proclamato un diritto, non una mera aspettativa nella generosità dello Stato o dei suoi governanti. Non un’aspirazione, la cui soddisfazione sarebbe lasciata al senso etico e umanitario di chi riceve la richiesta, ma una pretesa giuridicamente garantita, per mezzo di apposite leggi − da applicare sotto il controllo dei giudici − ad essere ospitato in Italia, ove ricorrano i presupposti previsti dalla norma costituzionale (…) Se è vero che il diritto di asilo, come tutti i diritti fondamentali, è soggetto a bilanciamento con altri diritti di pari rango, è altrettanto vero che esso non può subire limitazioni intrinseche, cioè del suo contenuto, per effetto di considerazioni di carattere generale-generico, come, ad esempio, l’esigenza di tutelare la sicurezza pubblica o la limitazione delle risorse disponibili. Per questo, come per tutti gli altri diritti fondamentali, le condizioni esterne non incidono sul contenuto dei diritti, ma solo sul grado di possibile attuazione pratica degli stessi. Nessuna esigenza securitaria o limitazione di bilancio possono concorrere a configurare la consistenza giuridica della pretesa, ma possono limitarne temporaneamente l’effettività, ferma restando l’intangibilità del suo nucleo essenziale»[14].

All’autonomia e alla natura incondizionata del diritto di asilo non può che fare da pendant una pari autonomia e assenza di condizionamento della giurisdizione nell’attuarlo.

I muri alzati ancora una volta dagli Stati nazione possono e devono essere abbattuti dagli Stati giurisdizione nel perseguimento di quella eguaglianza “forte”, insensibile alla volontà politica dei legislatori quando tale volontà sia dettata da egoismi nazionali e federali o da interessi comunque in contrasto con il riconoscimento dei diritti.

E’ un impegno che, come giurisdizione indipendente, dobbiamo sentire nostro da oggi; anzi, da ieri.


 
[1] Il testo è la trascrizione di una dichiarazione resa il 10 agosto 2021 da Mahbouba Seraj, attivista per i diritti delle donne afghane, all’emittente turca TRT World.

[2] Così Pietro Costa, Dai diritti naturali ai diritti umani: episodi di retorica universalistica, in Il lato oscuro dei Diritti umani: esigenze emancipatorie e logiche di dominio nella tutela giuridica dell’individuo, a cura di Massimo Meccarelli, Paolo Palchetti, Carlo Sotis, 2014.

[3] In Letizia Gianformaggio, Eguaglianza, donne e diritto, Il Mulino, 2005.

[4] Letizia Gianformaggio, L’eguaglianza di fronte alla legge: principio logico, morale o giuridico?, in Eguaglianza, donne e diritto, cit.

[5] Letizia Gianformaggio, Donne, eguaglianza, guerra, in Eguaglianza, donne e diritto, cit.

[6] Si veda, sul tema, Jesper Petersen, I volti diversi del femminismo islamico in Europa, Oasiscenter.eu, 2019.

[7] Il movimento mistico femminile fu in particolare legato alla scuola delle Beghine ed ebbe a oggetto una lettura alternativa dei Testi cristiani molto più propensa a valorizzare l’esperienza di questa vita come occasione di incontro con Dio e di realizzazione del Suo progetto. Una trascendenza nell’immanenza, affermata da teologhe radicali come Margherita Porete, autrice dello Specchio delle anime semplici, testo che lo costò la condanna a morte per eresia (fu arsa sul rogo a Parigi nel 1310); ma fu anche coltivata da autori della tarda scolastica, fra tutti Teodorico di Freiberg il quale, con la teorizzazione dell’intelletto come forma di vita necessaria a Dio e però presente nella persona umana, si presentava certamente come un “amico intellettuale” della teologia femminile dell’immanenza.

[8] Si veda per approfondire, Renata Pepicelli, Femminismo Islamico: Corano, diritti, riforme, Carocci, 2010.

[9] Si veda la sua autobiografia, Il mio Iran, Sperling, 2006.

[10] Si veda l’articolo pubblicato dal Presidente dell’Osservatorio, Avv. Franceso Caia, su Il dubbio, il 20 agosto 2021.

[11] Si veda per approfondire, Renata Pepicelli, Femminismo Islamico: Corano, diritti, riforme, Carocci, 2010.

[12] Si veda per approfondire Francesca Brunetta d’Usseaux, Eleonora Ceccherini, La precettività della CEDAW alla luce delle riserve a carattere religioso: un equilibrio precario, in DPCE Online.

[13] Cfr. Analìa Eliades, Le donne nella giudicatura internazionale, in Altalex online.

[14] Dall’intervento tenuto al corso della Scuola superiore della magistratura Il diritto ad una tutela giudiziaria effettiva dei richiedenti protezione internazionale (Catania, 12-14 settembre 2018), pubblicato da ASGI Online.

09/09/2021
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Giornata internazionale delle donne in magistratura, 10 Marzo 2024
a cura di Medel

MEDEL (Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés ) celebra la Giornata del 10 Marzo, sottolineando ancora una volta l'impegno delle donne per la giustizia e per lo Stato di diritto

11/03/2024
Afghanistan: la responsabilità e l’impegno vengono prima della solidarietà

La questione dell’Afghanistan evidenzia in modo particolarmente chiaro, nel contesto geopolitico, le ambiguità e gli opportunismi tattici che legano i Paesi occidentali alla narrazione dei diritti umani; ambiguità alle cui radici vi è un nodo politico e culturale da sciogliere, che affonda nella storia coloniale e anche nella questione di genere, non ancora realmente assimilata né elaborata dai nostri ordinamenti giuridici nonostante i proclami mediatici, sempre più diffusi in materia. Il flusso migratorio già in atto dall’Afghanistan, che non sarà certamente paragonabile in termini quantitativi a quello degli ultimi anni, potrebbe indurre i Paesi occidentali a nuove “torsioni” del discorso sui diritti e a mettere di nuovo in primo piano interessi politici, economici e strategici. Per la parte che avrà nella vicenda afghana la giurisdizione, in particolare della protezione internazionale, sarà quindi chiamata a una sfida d’indipendenza da qualsiasi valutazione “altra” dal riconoscimento effettivo del diritto di asilo; così come dovrà dimostrare una capacità, maggiore rispetto a quella dei governi europei, di analisi e di implementazione della questione di genere. 

09/09/2021
Lettera di MEDEL all'UNHCR in merito all'attuale situazione in Afghanistan e comunicato di MD in sostegno alle donne afghane

Di fronte al drammatico aggravarsi della crisi umanitaria in Afghanistan, e all’escalation di violenze contro civili inermi e contro coloro che in questi anni hanno operato per rafforzare lo stato di diritto e le istituzioni, l’unica risposta all’altezza dei valori della democrazia è la mobilitazione per mettere in salvo ed accogliere tutte le persone a rischio, e per difendere le libertà e i diritti fondamentali di tutti, a cominciare dalle donne e dai bambini. 
E’ questo il richiamo venuto in questi giorni dai numerosi interventi della magistratura associata, in ambito nazionale ed internazionale, e dalla comunità dei giuristi.
Pubblichiamo di seguito la lettera di Medel all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’intervento di Magistratura Democratica.

23/08/2021