Roma, 3 giugno 2014

Stampa
Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 

Alcune riflessioni sull’elezione del Presidente della Commissione europea

Penso che sarebbe utile avviare sulla vicenda dell’elezione del Presidente della Commissione europea e degli altri leader delle istituzioni europee una riflessione che vada al di là dei nomi.


Come ha detto Matteo Renzi “prima di mettersi d’accordo su un nome, mettiamoci d’accordo su un programma e su un’agenda” aggiungendo: “nessuno dei candidati (alla presidenza della Commissione, ndr) ha ottenuto la maggioranza assoluta ed è dunque difficile trovare una soluzione senza un accordo globale”.


Partiamo da alcune considerazioni sullo “stato dell’Unione”.


1. L'Unione europea non è (ancora) una democrazia parlamentare sovranazionale ma è fondata su una doppia legittimità democratica (rappresentativa) nazionale ed europea alla quale si sono aggiunti elementi embrionali di democrazia partecipativa come l’iniziativa dei cittadini europei


2. Contrariamente a quel che ha affermato Luigi Ferrajoli (“Il Manifesto”, 14 maggio), l'Unione europea non ha tutti i tratti di una federazione, ne ha alcuni molto limitati che nulla hanno a che fare con gli eccessi di centralizzazioni cui abbiamo assistito in questi anni, ma le mancano tratti essenziali federali nella ripartizione delle competenze e nelle procedure di decisione


3. Il Trattato di Lisbona non prevede la procedura di designazione del Presidente della Commissione europea da parte delle famiglie politiche europee bensì da parte del Consiglio europeo - tenuto conto non “dei risultati delle elezioni europee” ma “delle elezioni europee” e fatte le appropriate consultazioni - a maggioranza qualificata (almeno 228 su 321 voti ponderati) e poi la sua elezione da parte del Parlamento europeo a maggioranza assoluta (almeno 376 voti su 751)


4. Il PSE o meglio la larga maggioranza del PSE ha accettato l'autocandidatura di Schulz, la GUE quella di Tsipras, i liberali hanno scelto preferito Verhofstadt a Rehn e i verdi hanno scelto Bové e Keller fra quattro candidati fra cui l’italiana Frassoni. Obtorto collo e con il voto favorevole solo della minoranza dei congressisti il PPE ha indicato a Dublino Juncker (gli altri voti sono andati a Barnier e la maggioranza si è astenuta)


5. Il PPE non ha vinto le elezioni europee e anzi ha perso consistentemente in voti e in seggi. Il PSE, in modo meno consistente, ha perso in voti e in seggi.


6. Prima delle elezioni europee non c'è stato nessun accordo fra il Parlamento europeo e il Consiglio europeo su un’interpretazione consensuale della procedura post-elettorale per la designazione e l'elezione del Presidente della Commissione e il Parlamento europeo si è limitato ad approvare una risoluzione di iniziativa senza esigere una discussione con il Consiglio europeo pur conoscendo le reticenze di Van Rompuy e di alcuni capi di Stato e di governo


7. L'idea secondo cui se fallisce Juncker spetta a Schulz contraddice il principio di chi (PPE, PSE, ALDE e Verdi) sostiene che deve essere designato chi ha vinto le elezioni europee


8. Rari anzi rarissimi sono stati i partiti nazionali che hanno spiegato agli elettori il legame fra il voto al partito nazionale e il candidato alla presidenza della Commissione europea. In Italia l’hanno fatto solo la “Lista per Tsipras” e “Scelta per l’Europa” che ha indicato anche nel logo il nome di Verhofstadt.


9. Le Monde (e molto più modestamente il sottoscritto su L'Unità in tempi non sospetti) si era posto la domanda, in occasione dell’autocandidatura di Schulz: “une fausse bonne idée” ?


A questo proposito, io avevo scritto sulle colonne de L’Unità il 29 settembre 2013: “Si ritiene che basti la scelta di un candidato alla presidenza della Commissione europea, che nasconde dietro di sé il vuoto di vaghi programmi apparentemente unitari com’è avvenuto dal 1979 in poi, per fare la differenza con gli immobilisti da una parte e la multiforme area di movimenti populisti e antieuropei dall’altra? Non si dovrebbe piuttosto lavorare alla definizione di un vero programma di governo per un’altra Europa spiegando agli elettori che l’Unione europea è uno spazio politico dove hanno diritto di cittadinanza visioni radicalmente alternative di politiche economiche e sociali e posizioni conflittuali sul significato della democrazia europea? Non si dovrebbe chiarire agli elettori che un programma di chi si candida a garantire beni comuni a dimensione europea sarà degno di questo nome solo se ci s’impegnerà a gettare le basi per un vero governo europeo con poteri limitati ma reali che risponda al Parlamento europeo nel quale dovrà conquistarsi la fiducia? Non ci si dovrebbe infine impegnare davanti agli elettori ad aprire, immediatamente dopo le elezioni europee, un nuovo cantiere dell’Unione europea per andare al di là del Trattato di Lisbona verso un’Europa inclusiva e democratica?”


10. che fare? Io ritengo che si debba aprire un negoziato a luglio fra il nuovo Parlamento europeo e i governi (coordinati dalla presidenza italiana) per trovare una soluzione politicamente forte che segni una discontinuità sostanziale e non solo formale con cinque anni di arroganza intergovernativa e di politiche di rigore (di cui è stato responsabile anche Juncker). Nel negoziato e in un “accordo globale” – come dice Renzi – devono rientrare anche le designazioni del presidente del Consiglio europeo, dell’Alto Rappresentante della politica estera e del Presidente dell’Eurogruppo.


Varrebbe la pena di ricordare l’esempio lussemburghese. Nelle ultime elezioni legislative, anticipate per uno scandalo sui servizi segreti, il partito conservatore di Juncker – pur perdendo seggi e voti - ha mantenuto la maggioranza relativa nella Camera dei Rappresentanti. Dopo il fallimento del tentativo di ricostituire la Grande Coalizione fra popolari e socialisti, si è formata una nuova maggioranza che in Germania si chiamerebbe “semaforo”: rossa (i socialisti), verde (i verdi), gialla (i liberali) con un giovane primo ministro liberale difensore dei diritti fondamentali e militante della lotta contro le discriminazioni. Potrebbe essere un buon esempio per il federalista-liberale Guy Verhofstadt.


(L’Unità, 03/06/2014)