Democrazia e sovranità: l’Europa libera alla prova del regime turco

Stampa
Stella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattivaStella inattiva
 

La storia ci ha drammaticamente insegnato che il passaggio dalla democrazia alla dittatura è avvenuto negli ultimi cento anni “a nome del popolo sovrano” e cioè giustificando la soppressione delle libertà costituzionali e dunque democratiche per difendere la sovranità del popolo con una contrapposizione grottesca fra il potere che appartiene al popolo (demos-crazia) e la sua apparente sovranità intesa – per dirla con Jean Bodin – come “quel potere assoluto e perpetuo che appartiene allo Stato”.

La soppressione delle libertà costituzionali, che sono alla base dello stato di diritto (legalità, uguaglianza, certezza del diritto, indipendenza della magistratura, protezione dei diritti umani), è stata talvolta giustificata per reagire al rischio della perdita dell’indipendenza per l’intervento di potenze esterne o per salvaguardare gli interessi e l’identità del popolo sovrano da poteri interni.

Per limitarsi al nostro continente, è stato così per tutti i regimi fascisti che si sono formati in Europa dal 1922 in poi, per i regimi comunisti che si sono formati nell’area di influenza sovietica dal 1945 in poi, per la dittatura dei colonnelli greci dal 1967 al 1974 ed ora nel passaggio dalla democrazia parlamentare al regime autoritario e islamico di Erdogan in Turchia.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale,  l’Europa – quella occidentale fino al 1989 e quella continentale dal 1989 in poi – ha creato dei vaccini per evitare che il virus dell’autoritarismo contagiasse i paesi europei come era avvenuto fra le due guerre.

Il Consiglio d’Europa, concepito all’Aja nel 1948 e nato a Londra nel 1949, si è dotato di due vaccini: il primo di natura politica che consente all’Assemblea parlamentare e/o al Comitato dei Ministri di sospendere la partecipazione di uno Stato membro che violi i diritti dell’Uomo e le libertà fondamentali così come definiti nella Convenzione firmata a Roma nel 1950 e il secondo di natura giurisdizionale che consente alla Corte europea dei diritti dell’Uomo di sanzionare la violazione puntuale di un articolo della Convenzione da parte di uno Stato membro.

Lo statuto del Consiglio d’Europa consente di giungere fino al punto di spingere uno Stato membro ad uscire dall’organizzazione (articolo 9) ma non si è mai giunti fino a questo punto sia perché ciò avrebbe fatto perdere ai cittadini di quello stato la protezione giurisdizionale garantita dall’accesso alla Corte - a cui si aggiunge il monitoraggio di altri organi del Consiglio d’Europa fra cui il commissariato per i diritti umani e il comitato per la prevenzione della tortura – sia perché il Consiglio d’Europa avrebbe perso i contributi finanziari dello Stato costretto al recesso.

Sulla base di queste regole, il Consiglio d’Europa – su proposta del presidente del Consiglio italiano Aldo Moro e del suo ministro degli esteri Pietro Nenni, quest’ultimo ispirato dal suo consigliere Altiero Spinelli - ha sospeso nel dicembre 1969 la Grecia dall’Assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri due anni e mezzo dopo il colpo di Stato dei colonnelli proclamato per “difendere il paese dall’occupazione comunista” reintegrandola nel 1975 dopo la caduta della dittatura. Vale la pena di ricordare il rischio del contagio greco nell’Italia attraversata dai servizi deviati e l’appello del leader della giunta greca Papadopoulos agli “anticomunisti italiani” perché seguissero l’esempio della Grecia.

Le Comunità europee, nate a Roma nel 1957, non erano allora dotate di strumenti politici e giurisdizionali per proteggere i diritti dell’Uomo e salvaguardare lo stato di diritto né al loro interno né nei rapporti con i paesi associati anche se la Corte di Giustizia aveva affermato che i valori legati ai diritti fondamentali facevano parte di fatto della sua ragion d’essere.

Nonostante questa grave lacuna nei trattati, le Comunità europee decisero di congelare l’accordo di associazione con la Grecia dei colonnelli con una scelta politica e giuridica che ebbe un innegabile effetto sull’indebolimento interno della dittatura e sulla sua caduta nel 1974 e che vale la pena di raccontare.

Dopo la decisione del Consiglio d’Europa era nato un dibattito all’interno della Commissione europea (allora presieduta dall’italiano Malfatti con Spinelli commissario all’industria e alla ricerca), del Consiglio dei Ministri e del Parlamento europeo sulle relazioni con la Grecia fascista.

Il dossier era di competenza del commissario tedesco Ralf Dahrendorf che, con apparente puntigliosità giuridica, sostenne il principio pacta sunt servanda suscitando inizialmente una reazione pilatesca dei suoi colleghi commissari e del Presidente Malfatti con l’eccezione di Altiero Spinelli che aveva mantenuto rapporti con la resistenza greca (oltre che con le opposizioni antifasciste nella Spagna di Franco e nel Portogallo di Salazar).

Aiutato dall’esule giurista greco Yankos Siotis, Spinelli smontò la tesi di Dahrendorf sostenendo il principio rebus sic stantibus e convincendo la Commissione a chiedere al Consiglio il congelamento dell’accordo di associazione con la Grecia fino alla caduta del regime e al ripristino della democrazia.

Il Consiglio d’Europa e l’Unione europea si trovano oggi di fronte alla Turchia, membro quasi fondatore del primo (ha aderito nel 1950) e associato all’altra con lo status di paese candidato da vent’anni all’adesione, le cui libertà costituzionali sono state annullate e in cui lo stato di diritto è costantemente violato a cominciare dalla indipendenza della magistratura con la conseguenza di rendere di fatto impossibili i ricorsi dei cittadini turchi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo.

Il  Consiglio d’Europa e l’Unione europea hanno fino ad ora usato nei confronti della Turchia il bastone e la carota – secondo l’espressione usata dalla diplomazia europea - dando la prevalenza alla seconda con effetti praticamente nulli sulla progressiva evaporazione della democrazia giustificando le loro reticenze per mantenere aperti i canali di dialogo con la società civile turca ma essendo prigionieri nel primo caso del sostanzioso contributo finanziario della Turchia al bilancio dell’organizzazione e nel secondo caso alla presenza in Turchia di due milioni e mezzo di rifugiati siriani secondo i dati ufficiali (o cinque milioni secondo le stime non ufficiali) dopo l’accordo firmato nel marzo 2016 su proposta della Germania.

Più in generale i governi europei sono paralizzati dal ruolo della Turchia in tutta la regione medio-orientale e dalle sue mutevoli alleanze, una paralisi aggravata dall’inesistenza di una politica estera e della sicurezza comune dell’Unione europea nel suo insieme.

Di fronte al regime autoritario e islamizzato imposto con la violenza da Erdogan, è arrivato il momento di abbandonare la politica della carota e scegliere quella del bastone sospendendo la partecipazione della Turchia dalla assemblea parlamentare e dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e congelando l’accordo di associazione fra l’UE e la Turchia a cominciare dai suoi aspetti economici e dall’Unione doganale ma mantenendo attivi politiche comuni che vanno a vantaggio dei cittadini turchi come Erasmus Plus o gli aiuti alle organizzazioni non governative e alle associazioni rappresentative della società civile.

PIER VIRGILIO DASTOLI