ROMA, 22 OTTOBRE 2012

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L'ALLEANZA DEI FEDERALISTI CHE SERVE ALL'EUROPA

Si recheranno in trenta o giù di lì a Oslo, ciascuno su un volo di Stato, per festeggiare il premio Nobel della pace all’UE: una prova della forza dell’unione o una manifestazione della debolezza di un’organizzazione a metà sovranazionale che non riesce ancora a darsi un volto e un’identità a livello internazionale? Chi parlerà a Oslo in nome dei trenta e, attraverso i trenta, di mezzo miliardo di cittadini?

 

Qualcuno aveva azzardato l’idea di mandare a Oslo ventisette Erasmus (nella speranza che sarebbero stati trovati nel frattempo i soldi per coprire l’ultima tranche delle borse di studio del 2012) o ventisette bambini o di far rappresentare il sogno di Altiero Spinelli dell’Europa che non cade dal cielo, ma la voglia di visibilità ha travolto i leader delle istituzioni europee che dimenticheranno così a Oslo per qualche ora le querelle sull’integrazione finanziaria e sulla ricapitalizzazione delle banche.

Per dare un segnale della voglia di un’Europa diversa da quella del rigore, la Fondazione europea promossa da Jeremy Rifkin e il Movimento europeo hanno annunciato che saranno scelti cento luoghi-simbolo della storia europea (da Ventotene a Sarajevo, da Gdansk a Guernica, da Aquisgrana a Birkenau, da Tallinn a Lisbona) dove manifestare pacificamente il 9 dicembre alla vigilia della cerimonia di Oslo. Le speranze che i trenta troveranno nel frattempo a Bruxelles, nel vertice del prossimo 22 novembre, il coraggio e la visione per dotare l’UE di un bilancio capace di garantire beni comuni europei sono ridotte al lumicino non solo per l’ostilità britannica ma per la resistenza dei paesi che si considerano contributori netti (fra i quali anche l’Italia). L’arrivo a Oslo in ordine sparso sarà l’espressione più netta di un’Unione in cui la o le diversità hanno fatto premio sull’unità.

Chi frequenta i palazzi di Bruxelles ha avvertito fin dall’inizio della crisi che è andata progressivamente scemando la fiducia reciproca e che si è andata annullando quella che Delors chiamava negli anni novanta “affectio societatis”. Il rischio immanente è quello di un’Europa à la carte o di un’Europa a geometria variabile se si considera che la tassa sulle transazioni finanziarie è stata adottata da undici paesi, il fiscal compact da dodici, il trattato di Pruem da tredici, la moneta unica da diciassette, lo spazio di Schengen da ventidue, l’accordo Europlus da venticinque e che l’Unione è composta di ventisette paesi e presto di ventotto.

Come si sa, la crisi irrisolta ha corroso progressivamente il consenso dei cittadini europei, anche se i sondaggi di opinione indicano che la maggioranza nutre più speranze nell’Unione che negli Stati membri ma i segnali centrifughi che vengono dalla Catalogna, dalla Scozia e dalle Fiandre hanno fatto crescere nelle ultime settimane le preoccupazioni sulla stabilità dell’Unione. Che contributo costruttivo potrà dare per rovesciare queste tendenze il Vertice europeo contro gli euroscettici e i populisti riproposto da Mario Monti al Consiglio Europeo del 18 e 19 ottobre? Non basterà certo un brain storming fra capi di Stato e di governo o un’analisi comparata di fenomeni esistenti in misura diversa in tutti i paesi membri per sconfiggere i populismi e rispondere agli euroscettici. I secondi sono sordi a ogni richiamo alla ragione e la presenza di partiti anti-europei nelle elezioni nazionali ed europee è fisiologica.

Il fenomeno del populismo (suggeriamo di rileggere il bel libro di Yves Mény “Populismi e democrazia”) è invece più pericoloso perché ne sono prigionieri settori importanti dei governi nazionali, delle forze politiche, del mondo economico e della cultura. Nel bene o nel male, il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dell’UE – anche andando al di là dei compiti che gli sono stati assegnati dal trattato – è diventato un organo di decisione e le sue decisioni s’impongono alle istituzioni europee e agli Stati membri in un quadro privo di legittimità democratica dove non contano né i parlamenti nazionali né il Parlamento europeo.

Per contrastare le tendenze populiste, il Consiglio europeo dovrebbe decidere di riaprire il cantiere dell’Unione europea - come avvenne a Laeken nel 2001 dando seguito alla proposta lanciata un anno prima da Giuliano Amato con Gerard Schröder – ponendo al centro del cantiere la questione della cessione di quote consistenti di sovranità nazionale all’Unione (sollecitata dal Capo dello Stato nel suo messaggio alla Federazione nazionale dei Cavalieri del Lavoro) per garantire beni pubblici europei e la conseguente dimensione democratica sopranazionale ricordata da Juergen Habermas.

Tutto ciò purtroppo non avverrà perché i governi sono prigionieri di apparenti interessi nazionali e perché Mario Monti ha mostrato più volte la sua ostilità a un salto verso l’Unione politica sapendo che non sarebbe seguito su questa strada dalla maggioranza di centrodestra che ancora esiste nel parlamento italiano.Il Vertice dei governi dovrebbe essere invece accompagnato da una forte mobilitazione della società civile come avvenne in occasione del Consiglio europeo di Milano nel giugno 1985 con un’alleanza inedita fra federalisti, organizzazioni dei lavoratori, poteri locali e associazioni della società civile ma anche – com’è stato proposto su queste colonne da Rocco Cangelosi – da una riunione delle assise interparlamentari sul modello di quelle che si svolsero a Roma nel novembre 1990.

Il ruolo della buona politica è di conquistare il potere per governare in nome e nell’interesse dei cittadini e senza il potere conquistato democraticamente i partiti perdono la loro ragion d’essere e insieme il consenso dei cittadini. Spetta in primo luogo alla buona politica battersi per creare in Europa un potere democratico che ancora non c’è.


Pier Virgilio Dastoli