Cinque proposte in campo per rafforzare l’Europa

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Le scarne indiscrezioni che filtrano sui colloqui tra Mario Draghi e i partiti indicano piuttosto chiaramente l’intenzione del presidente del Consiglio designato di dare una forte centralità all’iniziativa che il nuovo governo italiano dovrebbe assumere in materia di riforma delle istituzioni dell’Unione europea. In particolare Draghi avrebbe in mente un pacchetto di riforme che corrisponde significativamente alle proposte degli ambienti politici italiani più orientati al rafforzamento delle istituzioni stesse, alla necessità di un loro buon funzionamento e del loro carattere democratico. Nei giorni scorsi abbiamo presentato su strisciarossa cinque punti che il Movimento Europeo sottopone all’attenzione del presidente incaricato (http://www.strisciarossa.it/cinque-priorita-per-un-governo-davvero-europeista/) e che lui, stando anche a quanto ha riferito nella sua conferenza stampa Bruno Tabacci, avrebbe considerato favorevolmente. Li riassumiamo brevemente: il superamento del voto all’unanimità, una sovranità condivisa su materie che ora sono di competenza nazionale, uno ius soli europeo, una capacità fiscale dell’Unione autonoma dai bilanci nazionali, il rispetto dello stato di diritto.

Durante gli anni della sua presidenza a Francoforte Mario Draghi ha avvertito più volte la classe politica europea che la BCE poteva fare molto per difendere l’euro dagli attacchi speculativi ma aggiungeva “abbiamo fatto abbastanza? Sì – si rispondeva – abbiamo fatto abbastanza. Ma possiamo fare di più” e quel “possiamo” si riferiva all’idea che – tutti insieme – bisognava andare “alla ricerca di un’Unione più perfetta”.

In più occasioni e soprattutto in Germania, Mario Draghi ha sottolineato l’esigenza della partecipazione dei cittadini (demokratische Teilhabe) e, citando Jürgen Habermas, di uno spazio pubblico europeo per garantire la legittimità democratica delle scelte europee di cui la politica monetaria e l’euro hanno un carattere irreversibile ma che, da sole, possono provocare effetti negativi.

Nel perimetro europeo di Mario Draghi si colloca innanzitutto il completamento dell’Unione economica e monetaria che fu precisato nel 2015 prima dalla Commissione europea e poi dal “rapporto dei cinque presidenti” (di cui uno e certamente il principale proprio lui) che indicava gli obiettivi ma anche una tabella di marcia di quattro unioni: economica, finanziaria, fiscale (cioè di bilancio) e democratica.

Quel rapporto è rimasto, largamente inattuato, negli archivi delle istituzioni europee ma Draghi è tornato più volte sui rischi di un’unione imperfetta mettendo prima l’accento sulla necessità di una politica fiscale europea (conferenza al Financial Times a conclusione della presidenza della BCE, 2019) e poi sulle diseguaglianze in particolare generazionali (discorso al Meeting di Rimini, 2020).

Le sfide di fronte alle quali si trova un’unione imperfetta sono andate nel frattempo crescendo al suo interno anche a causa della pandemia ma non solo: pensiamo alle conseguenze ancora imprevedibili della Brexit e alla centralità della sostenibilità ambientale e sociale. E sono cresciute anche nei rapporti dell’Unione europea con il resto del mondo.

Alle antiche e alle nuove sfide si aggiunge il cambiamento radicale imposto dall’urgenza e dalla necessità di politica di convergenza, di prosperità e di coesione che nel “rapporto dei cinque presidenti” era considerata la chiave dell’Unione monetaria. Questo cambiamento si identifica nel piano per la ripresa (Recovery Plan) dotato di 750 miliardi di euro per tre anni battezzato dalla Commissione europea Next Generation EU – di cui il 9 febbraio il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza lo strumento principale (Recovery and Resilience Facility) – ma soprattutto la creazione di debito pubblico europeo e la sospensione (temporanea) del Patto di Stabilità e delle regole sugli aiuti di Stato.

Il piano per la ripresa è agganciato al bilancio europeo (quadro finanziario pluriennale 2021-2027) perché la garanzia del debito pubblico europeo sarà data dalle risorse proprie che sono finora rimaste ferme all’1% del reddito globale dell’Unione europea e che la Commissione ha chiesto agli Stati di raddoppiare. Si tratta di una delle prime decisioni che dovrà prendere il Parlamento italiano per dare un segnale immediato agli altri parlamenti nazionali ma, per evitare che il debito sia rimborsato dai cittadini europei dopo il 2027, la Commissione europea ha annunciato che intende proporre di sostituire gradualmente i contributi nazionali con “tasse europee” sui giganti del web (web tax), sui prodotti ad alto contributo di carbonio (carbon tax), sulla plastica, sulle emissioni di gas (EU Emissions Trading System) ma anche con una quota delle imposte sulle società per avviare l’Unione verso una politica fiscale più equa e combattere elusione e paradisi fiscali che creano gravi distorsioni al mercato interno.

Se l’aumento delle risorse dall’1 al 2% dovesse passare senza troppe difficoltà dalle forche caudine delle ventisette ratifiche parlamentari nazionali anche nei paesi cosiddetti frugali (con un occhio alle elezioni olandesi del 17 marzo), la strada sarà più impervia per le nuove tasse europee su cui sta lavorando il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, il quale sarà certo aiutato da un gioco di squadra tutto italiano con Mario Draghi sapendo che le nuove tasse dovranno essere operative ben prima del 2027.

Il presidente del Consiglio designato sa bene che la politica fiscale europea è paralizzata dal principio del voto all’unanimità nel Consiglio e che il blocco è diventato ancora più granitico da quando il Consiglio europeo ha deciso – in violazione del Trattato – di avocare a sé delle decisioni che spettano ai ministri.

La lista delle politiche sottoposte al vincolo dell’unanimità è lunga nonostante i passi in avanti compiuti dal Trattato di Maastricht in poi impedendo all’Unione di agire nei settori in cui gli Stati sono incapaci di decidere ciascuno per sé e va ben al di là della politica fiscale, giacché comprende una parte importante della politica sociale, dello spazio di libertà e giustizia, delle misure contro le discriminazioni, della politica economica e ambientale, dell’estensione dei diritti di cittadinanza e di tutta la politica estera e di sicurezza.

Né il metodo della cooperazione rafforzata, introdotto con il Trattato di Amsterdam nel 1999, né la cosiddetta “clausola della passerella” che consentirebbe al Consiglio europeo di autorizzare il Consiglio a decidere a maggioranza hanno frantumato il blocco delle decisioni unanimi. L’unica via percorribile sarebbe quella della revisione dei Trattati, la quale sarebbe però sottomessa anch’essa all’accordo unanime dei governi e alla ratifica di tutti i parlamenti nazionali. Una situazione apparentemente inestricabile che spinse il Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 a proporre una riforma globale delle Comunità europee e l’introduzione di un metodo costituzionale di integrazione differenziata (Progetto Spinelli), ripreso da Romano Prodi durante i lavori della Convenzione per una costituzione europea nel 2002 (Documento Penelope).

L’ostacolo dell’unanimità non rappresenta la sola imperfezione dell’Unione europea perché le sfide antiche e nuove e da ultimo l’emergenza sanitaria hanno posto la questione di una diversa ripartizione delle competenze fra il livello europeo e il livello nazionale senza dimenticare la dimensione locale delle città. Più volte Mario Draghi ha sollevato la necessità di rivisitare il cosiddetto “principio di sussidiarietà e di proporzionalità”, di cui si discute in dottrina se abbia un’origine cattolica o protestante, attribuendo all’Unione delle responsabilità più ampie di quelle che le sono state attribuite dai Trattati (salute, sociale, politica migratoria, politica industriale e digitale, relazioni esterne) e abbandonando il principio – sovranista – secondo cui sono gli Stati a cedere competenze all’Unione (in tedesco Kompetenz-kompetenz) per abbracciare quello tutto federale introdotto nella Legge Fondamentale tedesca del 1949.

L’aumento delle competenze dell’Unione europea ci ricollega alla questione del bilancio e delle risorse per finanziarlo e all’esigenza di uscire dal recinto delle polemiche sui “contributori netti” e sul giusto ritorno seguendo la via indicata dalla Commissione di tasse europee per creare beni comuni a dimensione transnazionale. In questo quadro si colloca il tema di un prolungamento fino al 2030 di un Recovery Plan come strumento della realizzazione dello European Green Deal in coerenza con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile.

Il perimetro europeo di Mario Draghi non si limiterà all’economia, se andiamo a rileggere i suoi interventi “politici” (al Meeting di Rimini, al Premio De Gasperi a Trento, all’’Università di Helsinki e altri) che fissano la distinzione programmatica fra europeismo e sovranismo.

Pensiamo allo ius soli europeo come conseguenza del principio della accoglienza e lo sviluppo di una vera cittadinanza europea nella consapevolezza che essa è posta a fondamento del principio di non-discriminazione di tutte le persone che risiedono nell’Unione europea.

Pensiamo infine al rispetto dello stato di diritto, come condizione per aderire e/o appartenere all’Unione europea, così come declinato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e in coerenza con i principi della Carta delle Nazioni Unite nelle relazioni con i paesi terzi.

Si tratta di una materia di discussione molto ricca, in vista della Conferenza sul futuro dell’Europa, con cui dovrà cimentarsi anche l’eterogenea maggioranza che sosterrà il governo Draghi.

 

PIER VIRGILIO DASTOLI
11 febbraio 2021