L’Unione europea è zoppa. Dobbiamo rafforzarle la gamba europea

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Molto è stato già detto e scritto di quel che è avvenuto ad Ankara il 6 aprile quando la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno incontrato il capo dello Stato turco Recep Tayyip Erdogan per riaprire il dialogo fra l’Unione europea e la Repubblica di Turchia sulla “agenda positiva” auspicata dal Consiglio europeo del 25 marzo.

La questione provocata dal sofagate e le relazioni con la Turchia – anche dopo la conferenza stampa del premier Mario Draghi che ha definito Erdogan “un dittatore con cui è necessario cooperare” – occuperanno a lungo l’agenda europea con effetti temporaneamente positivi nelle relazioni fra il Consiglio europeo e la Commissione europea perché Charles Michel è stato costretto a condividere, davanti alla Conferenza dei Presidenti dei Gruppi politici nel Parlamento europeo, l’interpretazione autentica del Trattato di Lisbona esposta da Ursula von der Leyen secondo cui le due istituzioni sono, nelle relazioni esterne, su un piano di perfetta uguaglianza sulla base degli articoli 15 e 17 TUE.

I temi dell’incontro di Ankara – precisati del resto dallo stesso Charles Michel nella sua intervista del 10 aprile a vari quotidiani europei  (la modernizzazione dell’Unione doganale in vigore dal 1995, la cooperazione economica nel quadro dell’accordo di associazione del 1963, il rinnovo degli accordi sui migranti siriani del 2016 in cambio di ulteriori aiuti finanziari dell’UE alla Turchia, la politica dei visti per l’ingresso dei cittadini turchi nell’Unione europea) – erano del resto tutti relativi alle relazioni bilaterali fra l’Unione europea e la Repubblica turca con l’obiettivo di superare le tensioni nel Mediterraneo provocate dall’invio di navi turche al largo di Cipro e della Grecia e nelle loro acque territoriali.

Questi temi devono essere affrontati dall’Unione europea avendo come priorità la necessità e l’urgenza del rispetto dei diritti fondamentali e dello stato di diritto a cominciare dalla immediata liberazione dei prigionieri politici, sindacali, del mondo dell’informazione, della giustizia e dell’università, dalla separazione dei poteri fra governo e magistratura e dal ritorno della Turchia nella Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne.

Questi temi non comprendevano dunque le questioni relative alla politica estera e della sicurezza dell’Unione europea e per questa ragione non era stata prevista ad Ankara la presenza di Josep Borrell Fontelles, Alto Rappresentanza dell’Unione europea per gli affari esteri e la sicurezza.

In questo quadro la partecipazione di Charles Michel all’incontro di Ankara era non solo irrilevante ma contraria allo spirito e alla lettera dei trattati che hanno stabilito una bizantina e inefficace natura tricefala dell’Unione europea in materia di politica estera e di azioni esterne attribuendo diverse responsabilità al Consiglio europeo e al suo Presidente e alla Commissione europea e al suo presidente e infine all’Alto Rappresentante per gli affari esteri e della sicurezza sotto il parziale controllo del Parlamento europeo.

Dopo l’incontro di Ankara Ursula von der Leyen si è recata da sola in Giordania perché anche in questo caso si trattava di discutere di questioni bilaterali e non di politica estera e di sicurezza.

La partecipazione di Charles Michel all’incontro di Ankara si spiega – ma non si giustifica – per il suo eccesso di interventismo che lo ha spinto fin dalla sua elezione il 1° dicembre 2019 ad agire al di là dei trattati come se egli fosse il Presidente di tutta l’Unione europea.

Vale la pena di ricordare il passo indietro del Trattato di Lisbona, rispetto al Trattato-costituzionale, che separò le materie rilevanti dalla politica estera e di sicurezza ivi compresa la dimensione della difesa iscrivendole nel Trattato sull’Unione europea (art. 21-46 del TUE) dalle azioni esterne (politica commerciale, cooperazione con i paesi terzi e aiuto umanitario, conclusioni di accordi internazionali, relazioni con le organizzazioni internazionali e clausola di solidarietà) comprese negli articoli 205-222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) dove il Consiglio europeo è totalmente assente.

La separazione fra politica estera propriamente detta e azioni esterne (in particolare in materia economica) fu pretesa nella Conferenza intergovernativa che fece seguito al fallimento del Trattato-costituzionale per sottolineare il carattere intergovernativo della prima e la natura comunitaria delle seconde con un approccio che nuoce alla leggibilità dei Trattati e all’efficacia del ruolo internazionale dell’Unione europea.

L’esperienza ci ha dimostrato che l’efficacia non può essere raggiunta riunendo sotto la responsabilità del Presidente del Consiglio europeo compiti di orientamento, di rappresentanza, di capacità negoziali ed infine esecutive che sono state immaginate invece per l’Alto Rappresentante nel tentativo di assicurare una crescente coerenza internazionale all’azione dell’Unione europea.

Poco importa che il protocollo istituzionale del 2011 dia formalmente la precedenza al Consiglio europeo e al suo Presidente rispetto alla Commissione europea e al suo Presidente nelle occasioni appunto protocollari (pranzi, cene ed eventi simili) perché nei vertici internazionali (ad esempio il G7 e il G20) ad essi viene attribuito esattamente lo stesso rango.

Nonostante la natura tricefala nelle relazioni esterne, il Consiglio europeo e in particolare il suo presidente (prima Herman Van Rompuy ed ora Charles Michel) hanno adottato una interpretazione dolosamente erronea delle disposizioni del Trattato di Lisbona.

Nel caso di Herman van Rompuy egli ha creato intorno a sé una rete degli sherpa dei capi di Stato e di governo che hanno di fatto escluso il lavoro negoziale del Comitato diplomatico dei rappresentanti permanenti a Bruxelles e, al di sopra del Comitato, il ruolo dei ministri degli esteri e degli affari europei riducendo ad un compito amministrativo l’azione della Commissione europea (qualcuno usò l’espressione sherpacrazia).

Ancor peggio è avvenuto nel caso di Charles Michel dove il Consiglio europeo ha assunto sotto la sua guida e per sé un ruolo di decisione legislativa che, in base all’art. 15 TUE, non gli spetta (“Il Consiglio europeo – recita il Trattato - dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Esso non esercita alcuna funzione legislativa”) così come è stato denunciato dal Parlamento europeo a proposito del negoziato sul Quadro Finanziario Pluriennale. [*]

Charles Michel ha evidentemente mal sopportato il ruolo motore della Commissione europea nel piano di ripresa e resilienza (il Recovery Plan ribattezzato Next Generation EU che ha permesso di accantonare l’approccio esclusivamente intergovernativo del progetto franco-tedesco del Recovery Fund) e non ha perso occasione per cercare di affermare ultra vires il primato del Consiglio europeo su quello della Commissione europea.

Come si direbbe a Roma, Charles Michel si è “imbucato” nella missione di Ankara – sostenuto dai suoi colleghi capi di Stato e di governo e supportato dai suoi servizi - istruendo in sovrappiù la delegazione dell’Unione europea presso la Repubblica di Turchia sulle modalità della partecipazione dei due presidenti europei all’incontro con Erdogan e con il suo ministro degli esteri.

Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che Charles Michel si sia accomodato senza fiatare accanto al capo dello Stato turco lasciando in piedi – stupefatta – la presidente della Commissione europea.

Vale la pena di aggiungere la grave colpa in vigilando del delegato ad Ankara dell’Unione europea, il tedesco Nikolaus Meyer-Landrut, che - pur avendo debolmente e inizialmente tentato di resistere alle istruzioni del protocollo di Charles Michel - non ha informato preventivamente i servizi della Commissione europea di una situazione che avrebbe inevitabilmente creato un grave incidente diplomatico.

Interrogato il 10 aprile da alcuni quotidiani europei, fra cui Il Sole 24 Ore, l’ineffabile Charles Michel – dopo aver confessato che “l’incidente di Ankara mi toglie il sonno” – ha inteso ribadire la sua interpretazione immobilista della natura claudicante del sistema istituzionale europeo, una natura resa ancora più evidente dal sofagate, rivendicando il principio della doppia legittimità comunitaria e nazionale e la convinzione che l’Unione europea debba continuare a camminare su queste due gambe dovendo poi esprimere un’opinione diversa per rispondere alle vivaci critiche del Parlamento europeo.

Dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona in poi, si è accresciuto lo squilibrio fra le due gambe, non solo per quella che Carlo Azeglio Ciampi chiamava la zoppia dell’Unione economica e monetaria e che ha pesato drammaticamente durante tutti gli anni della crisi finanziaria, ma a causa della prevalenza crescente del metodo intergovernativo o confederale e dell’incompiutezza della gamba comunitaria con particolare riferimento al ruolo internazionale dell’Unione europea, nella gestione dei flussi migratori e,  più recentemente, nella lotta alla pandemia, nella campagna di vaccinazione e nella mancanza di una politica industriale europea nel settore della ricerca e della produzione farmaceutica.

Il Parlamento europeo e la Commissione europea non possono accettare che il piombo della cosiddetta legittimità nazionale, di cui ha parlato Charles Michel e che egli ha mostrato con imperdonabile arroganza nel palazzo presidenziale di Ankara, pesi a tal punto sulle già gracili ali del dibattito sul futuro dell’Europa da costringere l’Unione europea ad un inaccettabile status quo con la conseguenza di farla regredire verso un concerto cacofonico di apparenti interessi nazionali.

Già nella sessione plenaria del 26-29 aprile il Parlamento europeo esprimerà un forte e negativo giudizio politico ed istituzionale delle ragioni, che non riguardano il galateo né l’equilibrio di genere, alle origini del sofagate aprendo di fatto il dibattito sul futuro dell’Europa a partire dalla mostruosa natura tricefala dell’Unione europea.

In attesa della riforma profonda del sistema europeo, il Trattato di Lisbona consentirebbe di unificare le presidenze del Consiglio europeo e della Commissione europea attribuendo al(la) Presidente della Commissione - alla scadenza di due anni e mezzo del mandato di Charles Michel che terminerà il 31 maggio 2022 o prima di questa data per faute grave e a maggioranza qualificata come prevede l’art. 15 par. 5 TUE - la presidenza del Consiglio europeo.

Si rafforzerebbe così il controllo del Parlamento europeo sul vertice dei capi di Stato e di governo come avviene già per l’Alto Rappresentante per gli affari europei e la sicurezza e come dovrebbe avvenire per il presidente dell’Eurogruppo se si vuole avviare il consolidamento del ruolo internazionale dell’euro e rendere più coerente la politica economica e monetaria della zona euro attribuendone la presidenza al vicepresidente della Commissione per gli affari economici e monetari e l’euro.

Al fine di garantire un adeguato equilibrio politico fra le funzioni di leadership nelle istituzioni europee all’interno della maggioranza che si è costituita intorno alla Commissione von der Leyen (PPE), che ha portato all’elezione di David Maria Sassoli alla presidenza del PE (S&D) e di Charles Michel (ALDE) alla presidenza del Consiglio europeo un accordo interistituzionale potrebbe consentire di confermare David Sassoli fino alla fine della legislatura nel 2024 e attribuire a Guy Verhofstadt la presidenza della Conferenza sul futuro dell’Europa.

Così facendo renderemmo contemporaneamente meno claudicante la democrazia europea in statu nascendi e porremmo il tema essenziale dell’alternativa fra apparenti sovranità nazionali e sovranità europea nell’agenda della Conferenza sul futuro dell’Europa creando le condizioni istituzionali dell’autonomia strategica dell’Unione europea.

Pier Virgilio Dastoli

12 aprile 2021

 

[*] https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2021/662611/EPRS_IDA(2021)662611_EN.pdf