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Sul bilancio dell’Unione diamo la parola ai cittadini europei

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Se dovessimo cercare un’immagine significativa del dissesto europeo dovremmo disegnarla intorno al tema del bilancio e cioè dall’insieme delle risorse, delle spese e del sistema di governance nell’equilibrio o meglio nello squilibrio dei poteri fra autorità esecutiva (la Commissione) e autorità legislativa (il Consiglio e il Parlamento europeo).

Nel labirinto dei bilanci annuali e pluriennali

Come sanno coloro che seguono le vicende finanziarie internazionali, a partire dalla metà degli anni settanta, il mondo occidentale è passato – su ispirazione statunitense – dal sistema dei bilanci annuali a quello dei bilanci pluriennali per permettere una programmazione finanziaria durante una periodicità normalmente quinquennale che in Italia è stata introdotta per la prima volta con la Legge finanziaria dell’agosto 1978 successivamente modificata nel 1988 come naturale conseguenza del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria.

Il bilancio costituisce o dovrebbe costituire un documento nello stesso tempo politico, economico, contabile e giuridico.

Nel 1988 e in vista della realizzazione del mercato interno nel 1992, la Commissione Delors propose una programmazione finanziaria pluriennale di cinque anni dal 1° gennaio 1988 al 31 dicembre 1992 adottata dal Consiglio e dal PE il 29 giugno 1988.

Contrariamente agli Stati membri dove il Documento di programmazione economica ha una funzione solo politica, nell’Unione europea le prospettive finanziarie non servono solo per definire degli orientamenti di politica finanziaria che lasciano ai bilanci annuali il compito di fissare il livello delle spese e delle entrate ma deteminano i livelli annuali sia dei crediti di impegno che quelli di pagamento per categoria di spese lasciando dunque un esiguo margine di manovra all’autorità di bilancio e in particolare al Parlamento europeo.

Occorre aggiungere che le prospettive finanziarie sono sostanzialmente una prerogativa del Consiglio che le adotta all’unanimità nel quadro di una procedura legislativa speciale sottraendo al Parlamento europeo quel potere di codecisione che è ormai la regola nel processo legislativo e concedendogli solo un potere di veto alla maggioranza qualificata dei suoi membri. Il Consiglio inoltre decide uniformandosi agli orientamenti politici stabiliti dal Consiglio europeo.

Che cosa prevede il Trattato di Lisbona

Nonostante le disposizioni del Trattato che prevedono un quadro finanziario pluriennale di cinque anni (art.312 TFUE) e il fatto che il bilancio deve essere integralmente finanziato da risorse proprie e cioè da imposte europee (art. 311 TFUE), il quadro finanziario pluriennale copre inspiegabilmente dal 1993 un periodo di tempo di sette anni superando di due anni l’agenda strategica del Consiglio europeo e il programma per la legislatura della Commissione su cui si fonda il voto di fiducia del Parlamento europeo. Il bilancio annuale è largamente fondato sui contributi nazionali degli Stati membri legati al loro PIL con l’eccezione delle entrate provenienti da una percentuale dell’IVA, dai dazi e dai prelievi agricoli sui prodotti dei paesi terzi e dalle imposte sui salari dei funzionari delle istituzioni europee.

Contrariamente alla (fallita) costituzione europea, il Trattato di Lisbona ha mantenuto sia il voto all’unanimità del Consiglio sulla fissazione della quantità e della qualità delle risorse proprie aggiungendo l’obbligo delle ratifiche nazionali e emarginando il Parlamento europeo in un ruolo meramente consultivo con disprezzo del principio “no taxation without representation”.

E’ stato fissato infine un tetto massimo dei crediti di impegno legato alle entrate (e cioè ai contributi degli Stati membri) che non può superare l’1.24% del PIL globale dell’Unione europea cosicché il bilancio europeo non è dettato dalle spese e dunque dalle necessità di finanziare le politiche comuni, seppure nel rispetto dell’equilibrio fra entrate e spese, ma dalle entrate fissate ogni sette anni dal Consiglio.

Perdurando nella violazione del trattato e della logica economica e democratica, la Commissione Juncker ha presentato il 2 maggio 2018 una proposta per un quadro finanziario pluriennale fondato su un periodo di sette anni (2021-2027) con una parte irrisoria finanziata dalle risorse proprie (che dovrebbero derivare da una modesta tassa sulle emissioni di CO2 e da una percentuale sulla imposta delle società nel caso in cui il Consiglio adotti all’unanimità i regolamenti di attuazione), la parte principale finanziata dai contributi nazionali e un tetto di spese largamente al di sotto dell’1.24% del PIL.

Alla ricerca dell’autonomia fiscale europea

E’ trascorso un anno e mezzo dalla proposta della Commissione alla quale il Parlamento europeo ha risposto proponendo un quadro pluriennale “5+5” che conduca l’Unione fino al 2030 e insistendo sulla necessità di passare dai contributi nazionali alle risorse proprie per rendere il bilancio europeo indipendente da quelli degli Stati nazionali con un tetto dell’1.3 % che porterebbe le spese oltre i 215 miliardi di Euro all’anno e consentirebbe la realizzazione di piani di investimenti essenziali come quello per l’Economia Verde, gli aiuti alla cooperazione internazionale, la riforma della politica agricola, il controllo delle frontiere e la decuplicazione delle spese per la formazione, la ricerca, la cultura e l’educazione.

Si inserisce in questo quadro la proposta di una capacità fiscale autonoma dell’Eurozona su cui il Movimento europeo ha presentato a giugno 2019 proposte precise in termini di fiscalità europea e di investimenti sostenibili di lunga durata (www.movimentoeuropeo.it).

Sette riunioni del Consiglio europeo dal giugno 2018 al dicembre 2019 si sono concluse senza accordo e il dossier è stato ora rinviato alla presidenza croata sulla base di un’inaccettabile “negotiation box” preparato dalla presidenza finlandese che propone di ridurre drasticamente l’ammontare complessivo delle spese a meno di 150 miliardi di euro all’anno trasformando le parole dei capi di stato e di governo dell’UE a favore della crescita sostenibile in una sequenza di dichiarazioni ipocrite.

La Commissione Von der Leyen non può accettare gli orientamenti del Consiglio europeo perché negherebbe le priorità del programma su cui ha ottenuto il voto di fiducia del Parlamento europeo.

Applicando l’art. 11 TUE sulla democrazia partecipativa, il Parlamento europeo dovrebbe organizzare con urgenza dei fora di dialogo, di dibattito e di consultazione con le organizzazioni rappresentative della società civile aprendo la via ad un bilancio partecipativo secondo l’esperienza avviata trenta anni fa a Porto Alegre e poi sviluppatasi in diversi modelli nel mondo per dare il potere ai cittadini di indicare le loro priorità nel governo del territorio, dell’ambiente, dell’educazione, della salute, della ricerca e della sicurezza.

Poiché al centro del bilancio ci deve essere il piano di investimenti per l’Economia Verde sulla base delle priorità presentate dalla Commissione l’11 dicembre, le cittadine e i cittadini europei dovrebbero partecipare al processo decisionale sulla base della Convenzione di Aarhus che, alla data del novembre 2019, è stata ratificata da 46 Stati e dall’Unione europea (e dall’Italia con la Legge 108 del 16 marzo 2001) e per la cui violazione la Commissione europea è stata già condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Per Commissione e Parlamento europeo agire coinvolgendo la società civile sul bilancio europeo sarebbe il modo migliore per avviare la preparazione della Conferenza europea sul futuro dell’Europa.

Pier Virgilio Dastoli

28 dicembre 2019

 

 

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