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A breve, probabilmente nella quarta settimana di questo mese, uscirà il nuovo monitor aggiornato al 2020 del Centro per la libertà e il pluralismo dei media di Firenze, attivo dal 2012. Per l’occasione – e per poter consultare tutte le ricerche già elaborate sul tema –  vi invitiamo a visitare il sito dell’iniziativa, cliccando su questo link. Per saperne di più su queste ricerche, abbiamo parlato con lo studioso Giovanni Melogli che, oltre a collaborare con il Centro, si occupa di educazione ai media europei per la Commissione europea e per l’Alliance internationale de journalistes. Inoltre, si è resto disponibile per un colloquio anche Arturo Di Corinto, giornalista, psicologo cognitivo  ed esperto di comunicazione mediata dai computer. Il colloquio con lui è stato lo spunto per poter individuare un ulteriore spunto di lettura: è il testo “Il valore della Carta dei diritti di Internet”, recentemente pubblicato da Editoriale Scientifica, a cura degli studiosi Laura Abba e Angelo Alù, con prefazione di Di Corinto. Poiché gli spunti derivanti dai colloqui con gli esperti trattano anche aspetti economici, questa settimana la sezione “Consigli di lettura” include anche riferimenti relativi al consueto spazio “Economia in pillole”.

In relazione agli studi svolti sul tema della tutela della libertà dei media e del pluralismo, Melogli sostiene che sia necessario, per salvaguardare le nostre democrazie, “Sviluppare un senso critico nei confronti dei messaggi che riceviamo da questi strumenti”. Si tratta di una capacità purtroppo poco diffusa nel pubblico di massa, quotidianamente esposto ai messaggi pubblicitari e spesso non consapevole degli interessi sottostanti al confezionamento di determinate notizie seguendo una particolare strategia enunciativa. Sarebbe opportuno, anche per migliorare la propria percezione della realtà, poter disporre delle opportune “lenti”. Tuttavia, è difficile poter trovare elementi a supporto di una convenienza di ciò per le aziende editoriali. Infatti, abbiamo posto a Melogli questa specifica domanda: “Ci sono evidenze empiriche della fake news come ostacolo allo sviluppo economico, ai processi produttivi?”.

Lo studioso ha risposto che, pur essendo d’accordo ,“Trovare indicatori per provare ciò è un po’ difficile. In termini generici, l’ecosistema mediatico porta in modo chiaro ad una sensazionalizzazione di tutti i contenuti: maggiore è il sensazionalismo, maggiore l’attrattiva, maggiori gli incassi. Viceversa avviene aumentando il livello di razionalità dei contenuti. Questa è una tendenza chiara e netta, con effetti distruttivi sulle menti delle persone esposte a questi messaggi. Si ha poi il fenomeno della polarizzazione: più si è netti, schierati sulle proprie posizioni, più si attrae pubblico. È un circolo vizioso dal quale non si esce”. Arturo Di Corinto, in risposta a questa domanda, sostiene che “È molto difficile. Dipende dalla complessità della psicologia del giudizio e delle decisioni. Ma soprattutto, dalla difficoltà di isolare la disinformazione dalla cattiva informazione. Paradossalmente, sono più facili da trovare esempi di quest’ultima piuttosto che di disinformazione, per esempio quelli di un giornale che adotta posizioni ideologiche e, in funzione di ciò, compie determinate scelte editoriali, proponendo determinate ricette economiche, per esempio quella a supporto delle politiche di austerità. Ad ogni modo è difficile verificare un rapporto tra disinformazione e sviluppo economico; inoltre, è molto complicato dare una risposta esauriente nelle democrazie mature, ad alto livello di complessità, in cui la formazione delle opinioni coinvolge molti soggetti e molti contesti. In ogni caso, la disinformazione in democrazie avanzate non può bastare a spiegare gli errori commessi dai singoli; ciò può invece verificarsi quando ad essa si accompagna un programma di cattiva informazione deciso dalle scelte politiche di un governo”.

Il quadro tracciato quindi presenta delle criticità; c’è poca tendenza a verificare le informazioni. Anche la tecnica del fact checking si rivela uno strumento utile più che altro ai giornalisti ma, sostiene Melogli, “la fruizione di questi strumenti da parte del pubblico è pari allo zero. Pochi fruitori razionali si fermano e vanno a cercare se l’informazione è vera o falsa. Il modo in cui se ne fruisce fa riferimento a meccanismi basati sull’emotività”. Gli strumenti oggi utilizzabili con il web hanno ampliato le possibilità di disinformare grazie ai social, ai blog e a tutti gli strumenti utilizzabili anche dai non addetti ai lavori. Un caso empirico è il seguente: “In Macedonia, durante la campagna elettorale USA del 2016, un gruppo di giovani utenti della rete ha portato avanti una campagna di disinformazione, basata su dati falsi, contro Hillary Clinton. Si è riscontrato che non lo facevano perché pagati da Trump, ma perché l’informazione costruita in quel modo veniva vista da tantissime persone e quindi incassavano i soldi della pubblicità: era solo un meccanismo economico. A questi soggetti non interessava nulla degli effetti sulle persone e sulla democrazia americana, ma solo di poter guadagnare dei soldi. Basta questo a capire in che tipo di ecosistema mediatico ci stiamo muovendo”.

E quindi, “Senza una profonda educazione ai media, senza un profondo senso critico, ci ritroviamo persi in un ecosistema senza alcun punto di riferimento”. Le conclusioni del dott. Melogli testimoniano anche come le logiche mediatiche correnti siano praticamente in antitesi con la scienza: “Ogni giorno si sente il bisogno di sentire qualcosa, sui media e ogni giorno si può dire qualsiasi cosa, non importa se scientificamente fondata”. Questi argomenti sono spunti con cui ritornare anche al testo presentato, questa settimana, sul valore della Carta dei diritti di Internet, per la cui applicazione effettiva c’è ancora un grande lavoro da fare. Chiudiamo qui con un ricordo di uno studioso del calibro di Stefano Rodotà, che se n’è a lungo occupato, fino all’approvazione del testo da parte del Parlamento, attraverso le parole di Arturo Di Corinto, che fa anche un collegamento tra l’impegno del politico per il nostro Paese e il dibattito sui diritti della Rete. Riportiamo una parte del testo completo, che si può leggere per intero cliccando qui: “Tra i lasciti di Stefano Rodotà c’è la Carta dei diritti per Internet. Non fu esattamente una sua idea, ma fu lui a realizzarla. L’idea di una Carta dei diritti di Internet nasce nel 2005 in Tunisia e fu proposta al mondo delle telecomunicazioni, ai governi e all’associazionismo proprio da un gruppo di nostri connazionali riuniti nella Casa Italia di Tunisi. Io c’ero. L’occasione per farlo era il World Summit on Information Society voluto dall’Onu per realizzare i “Millennium goals”. L’Organizzazione per le Nazioni Unite aveva finalmente realizzato che non ci potevano essere pace, democrazia e sviluppo senza garantire a tutti l’accesso alle nuove tecnologie dell’informazione che stavano progressivamente e inesorabilmente convergendo in Internet”.

 

 

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Per comprendere quali valutazioni entrino in gioco quando si tratta di bilanciare il diritto alla libertà di espressione con altri diritti, come quello alla riservatezza, questa settimana vi proponiamo il caso di una sentenza della CGUE del 14 febbraio 2019 che affronta aspetti interessanti di questo rapporto. I fatti vedono coinvolto un cittadino lettone, Sergejs Buivids, il quale, “Mentre si trovava presso i locali di un commissariato della polizia nazionale, ha filmato le operazioni di raccolta della sua deposizione nell’ambito di un procedimento per illecito amministrativo. Il sig. Buivids ha pubblicato il video così registrato (in prosieguo: il «video in questione»), che mostrava taluni agenti di polizia e le attività da essi esercitate all’interno del commissariato, sul sito Internet www.youtube.com. […] In seguito a tale pubblicazione, l’Agenzia nazionale per la protezione dei dati ha dichiarato, in una decisione del 30 agosto 2013, che il sig. Buivids aveva violato l’articolo 8, paragrafo 1, della legge sulla protezione dei dati, poiché non aveva comunicato agli agenti di polizia, nella loro qualità di interessati, le informazioni previste in detta disposizione relative alla finalità del trattamento dei dati personali che li riguardavano. Il sig. Buivids non aveva neppure comunicato all’Agenzia nazionale per la protezione dei dati le informazioni relative alla finalità della registrazione del video in questione e della sua pubblicazione su un sito Internet idonee a dimostrare che l’obiettivo perseguito fosse conforme alla legge sulla protezione dei dati. L’Agenzia nazionale per la protezione dei dati ha pertanto chiesto al sig. Buivids di provvedere affinché il suddetto video fosse rimosso dal sito Internet www.youtube.com e da altri siti Internet”.

A seguito di tale decisione, il sig. Buivids ha presentato ricorso al Tribunale amministrativo distrettuale lettone, contestando l’illegittimità di tale decisione e chiedendo anche il risarcimento del danno, sostenendo che, “con la pubblicazione del video in questione, aveva cercato di attirare l’attenzione della società su una condotta a suo avviso illecita delle forze di polizia”. Ma il suddetto tribunale ha respinto il ricorso. Similmente, la Corte amministrativa regionale lettone, successivamente invocata da Buivids, ha rigettato le sue istanze, sottolineando peraltro che i video in questione non avessero finalità giornalistica e non riprendessero fatti di attualità o scorrettezze del personale di polizia e che con il suo comportamento l’autore dei video avesse violato la legge sulla protezione dei dati.

Buivids ha quindi deciso di rivolgersi alla Corte suprema lettone, contestando le decisioni dei due tribunali precedentemente invocati, poiché i video erano stati girati in luogo pubblico e quindi ritenendo che non sussistessero i motivi per la rimozione da Youtube. La Corte Suprema, nutrendo dubbi sul fatto se il comportamento dell’autore dei video rientrasse nei dettami previsti dalla direttiva n. 95/46 CE, in particolare dell’articolo 9 che definisce la sfera di applicazione di “un trattamento di dati personali a scopi giornalistici”, si è rivolta alla CGUE. Un ulteriore dubbio della Corte suprema lettone era se la registrazione stessa svolta dal sig. Buivids rientrasse nell’ambito di applicazione della suddetta direttiva.

Per conoscere le decisioni della Corte di Giustizia Ue, il testo della sentenza completo è disponibile cliccando qui.

 
 

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In coerenza con i contenuti di questo numero, questa settimana ci occupiamo dell’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali, che fissa una serie di principi da tener presente ed anche reinterpretare alla luce dell’innovazione tecnologica. Rispetto ai vent’anni trascorsi dalla proclamazione della Carta, il 7 dicembre 2000, ed anche rispetto al suo successivo riadattamento del 12 dicembre 2007, oggi viviamo in un’epoca in cui i mezzi di comunicazione sono più rapidi, a più alto impatto; molte più persone vi hanno liberamente accesso e ciò si può considerare un passo in avanti. Ci sono anche più soggetti in competizione tra loro per ottenere visibilità sui media, considerata l’ampia diffusione di Facebook per esempio, che non esisteva ancora nel 2000 e che nel 2007 iniziava a diffondersi ma si era ancora agli inizi, in Italia. Ed è necessario riflettere sul fatto che, se da un lato mezzi del genere incrementano le opportunità di farsi conoscere, diffondere messaggi ad un determinato pubblico, essere autori di se stessi, dall’altro rappresentano un rischio di accresciuta diffusione di informazioni non verificate, poco autorevoli se non proprio volutamente false e denigratorie. È necessario considerare che il sacrosanto diritto alla libertà di espressione, intesa non solo come libertà di pensiero e di parola, ma di manifestazione di un sentire, della propria arte, del proprio credo e delle proprie convinzioni politiche, religiose, di tutti gli orientamenti che rientrano nella sfera personale, trova un limite etico nel fatto di non compromettere la dignità, la libertà, l’esistenza altrui. Purtroppo spesso si trascurano questi principi sul web e il risultato è un flusso incontrollato di comunicazione, rispetto al quale si può fare fatica a mettere in atto delle difese intellettuali. Lo stesso concetto di democrazia può finire così per essere travisato, poiché la supposta libertà, possibile grazie al mezzo informatico, di “dire ciò che si vuole” si rivela un boomerang. Senza controllo delle fonti, senza il giusto filtro, una tecnologia ricca di potenzialità positive come internet si trasforma in un mare tempestoso in cui si rischia di essere travolti. D’altro canto, nel primo comma dell’articolo 11 in esame, si pone l’accento anche su ciò che le istituzioni di uno Stato membro non devono fare, cioè porre in atto quelle che, in via generale, sono definite “ingerenze” delle autorità sulla libertà di espressione, oppure stabilire dei limiti alla circolazione di informazioni o idee all’interno dell’Unione europea. Si tratta di aspetti di altrettanta importanza e, anche in questo caso, l’approccio di ciascuno Stato membro nei confronti del principio posto dovrebbe anche in questo caso essere rispettoso di questa libertà. Una politica di comunicazione efficace dovrebbe sì incrementare le opportunità del pluralismo e della libertà dei media, come afferma il secondo comma, ma anche sviluppare una cultura civica della fruizione responsabile dell’informazione. Chi si occupa di comunicazione, ricorre spesso alla metafora della dieta mediatica: se correttamente applicata, porta il soggetto a “nutrirsi” in maniera corretta e bilanciata di informazioni. Secondo i principi che guidano tale approccio – e sarà capitato senz’altro agli studenti di Comunicazione o di una scuola di giornalismo di confrontarsi con questo problema dell’informazione – una dieta equilibrata prevede di ascoltare più fonti al giorno, o quantomeno i principali mezzi di comunicazione, cioè la radio, la lettura di almeno un quotidiano, i telegiornali e internet.

 

 

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